Massacro in Myanmar, decine di “uccisi dai cecchini”. I generali usano TikTok per reprimere la rivolta

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BANGKOK – E’ un massacro. Decine di persone sono state uccise oggi nella Terra delle pagode d’oro, la buddhista Myanmar. Il punto forse più crudele da quando è cominciata la dittatura quasi 60 anni fa. Dopo la domenica di sangue in diverse città contro i ribelli della “disobbedienza civile”, la violenza è riesplosa oggi negli stessi luoghi e in altre province meno note, con gli stessi tragici bilanci e la stessa ferocia di militari, agenti e volontari professionali. Anche un ragazzo di 14 anni ha perso la vita in uno dei distretti di Yangon, a decine sono feriti e affollano gli ospedali, dove trasportarli è un rischio e tre volontari di un’ambulanza sono stati brutalmente picchiati dai soldati ripresi in azione da una televisione a circuito chiuso.

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Myanmar Now parla di altre 18 vite stroncate oggi nella Capitale, lo stesso bilancio di domenica, e dice di poterne documentare direttamente sette. E’ anche lo stesso numero fornito dai testimoni per le uccisioni avvenute a Monywa, nella regione di Sagaing, con oltre 70 feriti, molti gravi. Sette sarebbero i manifestanti uccisi metodicamente con proiettili veri durante le proteste a North Okkalapa, 18 chilometri dal centro di Yangon. Poi ancora: un 22enne a Myingyan, nel Myanmar centrale, un 19enne a Mawlamyine, capitale dei Mon e già teatro di un’altra uccisione domenica. Nel complesso, i morti sarebbero almeno 40 secondo diverse fonti.

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E’ comunque un bilancio enorme, oltre ogni nera previsione. A rendere queste morti il simbolo del nuovo salto di qualità della sfida letale in corso nelle strade del Myanmar è il metodo con il quale sono stati uccisi. Ferite sulla testa, alla nuca, sulla fronte o, talvolta, sul petto, al cuore. Per molti dei testimoni citati dai social media e dalle news locali si tratterebbe dell’opera di cecchini scelti e collocati in punti strategici. Tra loro mercenari filo-governativi e i migliori cadetti delle accademie dalle quali sono usciti battaglioni famigerati come la fanteria leggera 33, 66, 77, gli stessi che massacrarono i Rohingya nel 2017 e operano da decenni in certe regioni etniche ribelli.

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A rendere la sfida diversa da tutte quelle del passato è l’utilizzo da parte dei militari golpisti di nuove tecnologie e media per controbattere le azioni in Rete dei giovani del CDM, o dei diritti civili, che sono nati e cresciuti con smartphone e computer e li usano per sollevare quanti più utenti possibile, raccoglierli, dargli coraggio per affrontare i rischi. Con un improvviso salto di capacità tecnologiche i soldati usano TikTok, la piattaforma cinese attraverso la quale si coordinano e distribuiscono nei punti caldi delle rivolte per reprimerle e dare il via a chi dovrà sparare, ma anche per comunicare ogni nuovo ordine. Non a caso da settimane i network dei ribelli segnalano l’arrivo di aerei con tecnici e materiale per creare un network di comando virtuale efficace come quelli di Pechino, che non ha ancora condannato il golpe e molti ritengono sia addirittura complice dei golpisti.

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L’altra differenza con il passato è che tra i giovani Z sembra crescere un istintivo senso del martirio, come se il loro sacrificio potesse rendere finalmente giustizia ai loro padri e nonni uccisi o torturati dagli stessi aguzzini negli anni ’60, 70, 80, e nel 2007. Alcuni di loro lo hanno scritto ricordano quando da bambini vedevano portarli via di notte e di giorno dalle case. Così avviene anche oggi, tra scene strazianti andate online di madri mogli e figli che tentano di trattenere i propri cari implorando insensibili soldati. Sono talmente tanti che le celle svuotate di 20mila criminali si stanno riempiendo al ritmo di centinaia al giorno.

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A tenere alta la fiamma della rivolta c’è una infinità di immagini angoscianti e messaggi emotivi di incitamento alla resistenza, perfino al martirio ma anche a creare gruppi di “partigiani” per mostrare la propria rabbia  tirando pietre a mano e con le fionde come i palestinesi, altri lanciando bombette che fanno fumo ma pochi danni, in risposta alle granate contundenti usate dai soldati assieme ai proiettili e i getti dei lacrimogeni.

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La grande massa pero’ marcia in pace, suona pentole che scacciano virtualmente tutti i demoni, alza cartelli e grida, o danza il rap di “Doh ayay”, che si traduce “la nostra causa”. Invita alla lotta e al sacrificio per rendere giustizia ai vivi e ai morti. Usa ritmi e immagini forti, violente, mixate con sapienza e rabbia, una macchia di sangue con dei fiori, i volti di qualcuno ferito, in lacrime, in marcia assieme a moltitudini. Altri netizen Z indossano costumi da principesse e altri abbigliamenti che il capo dei golpisti ha definito “indecenti, contrari alla cultura birmana”. Sono “atti che intendono danneggiare la moralità delle persone” è stata la sentenza.

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Ma intanto i ritratti di Min Aung Hlaing giacciono appiccicati sull’asfalto di mumerose città e tutti ci passano sopra, alimentando la rabbia dei soldati che secondo il loro capo stanno “usando il minimo della forza e con i mezzi meno dannosi”, mentre invece sparano ad altezza d’uomo. Le prime due vittime sono cadute nella mattinata a Mandalay dove i poliziotti ne avevano già uccisi altri due o tre nei giorni scorsi. Un uomo di 37 anni, Myo Naing Lin, è stato colpito al cuore, e una 19enne di nome Kyel Sin, la stessa età della prima martire uccisa a Naypyidaw, ha avuto la testa trapassata da un proiettile. Ma oggi c’è stata anche la vittima più giovane, un quattordicenne a Myingan, divisione di Mandalay, caduto per una causa più grande di lui, anche se non ci sono informazioni certe sulla sua identità.

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Molti si fanno tatuare sull’avambraccio il nome, il telefono dei famigliari e il gruppo sanguigno. Altri scrivono frasi come “se muoio offro il mio corpo per chi sta male”. In questo clima di terrore, gesti eroici e senso di una lotta all’ultimo sangue, è difficile immaginare il ritorno di un periodo di “riconciliazione nazionale” come quello offerto durante il governo civil-militare da Lady Suu Kyi e durato appena 5 anni. “Non perdoneremo” hanno detto e scritto in coro i ribelli Z su tutti i loro post per commemorare i martiri, che dal golpe del 1 febbraio a ieri sarebbero decine.

Della leader che tutti identificano con la causa stessa della democrazia chiedendone la liberazione, si continua a ignorare il luogo della nuova prigionia. Aung San Suu Kyi è comparsa già in videoconferenza a un processo che comprende anche i reati di istigazione alla violenza e che riprenderà il 15 marzo. Ma anche il presidente da lei scelto, Win Myint, sarà presto processato per altri due reati tra i quali imprecisate violazioni della Costituzione militare, ampiamente cancellata dagli stessi golpisti.

Il movimento della disobbedienza ha invitato chiunque a inviare i propri video a un centro segreto e virtuale che vuole documentare l’orrore che sta attraversando il paese anche nelle regioni etniche un tempo abbandonate al loro destino. Uno dei tanti mostra tre volontari di un’ambulanza che trasportava i feriti presi a calci con gli anfibi dai soldati e a bastonate col manico del fucile. Per paradosso proprio oggi l’organo ufficiale dei soldati The new light of Myanmar riportava il discorso tenuto dal golpista in capo Min Aung Hlaing al suo nuovo governo in uniforme, o “Consiglio” come lo chiamano: “Le forze di polizia- aveva appena detto – stanno controllando la situazione usando il minimo della forza e con i mezzi meno dannosi”, in conformità “con le pratiche democratiche”.

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