Mattanza dei delfini, Alberto Luca Recchi: “La caccia tradizionale delle Faroe non è più sostenibile”

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Da oltre trent’anni  Luca Alberto Recchi racconta con immagini e storie la vita degli oceani e ha ideato e guidato diverse spedizioni per filmare balene, squali e i capodogli nel Mediterraneo. Il documentarista definisce la mattanza di oltre 1.500 delfini alle isole Faroe in occasione della Grindadrap “una pratica barbarica”.

Perché, nonostante il raccapriccio che hanno suscitato le immagini delle Faroe, non si riesce a sradicare certe tradizioni?

“Un tempo la caccia tradizionale aveva senso e giustificazioni. Oggi non più. Vuol dire non avere capito nulla del nostro rapporto con la natura e con gli animali. La loro giustificazione è che noi “civili” non ci comportiamo molto meglio nei nostri mattatoi. Ed in effetti non hanno tutti i torti, ma non è una buona scusa per massacrare meraviglie del mare, quali delfini e globicefali. Appellarsi alla tradizioni non è una argomentazione valida, un tempo non si seppellivano i morti, ma l’uomo progredisce e si evolve. Non concepisco questa caccia, a meno che non si tratti dell’unica possibile fonte di proteine indispensabile per la sopravvivenza”.

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Alle Faroe una mattanza di 1500 delfini. E gli abitanti si dividono

Nella sua attività ha documentato pratiche simili in altri Paesi?

“Ho avuto la fortuna di non assistere mai a questi massacri, ma sono note le uccisioni di foche da parte degli Inuit e di balene da parte dei norvegesi, oppure sempre dei delfini in Giappone. In paesi come quest’ultimo questo tipo di caccia è particolarmente esecrabile perché è disponibile qualsiasi tipo di cibo e si può acquistare ogni bene di consumo: la carne di delfino è ormai soltanto un piatto costoso che si sceglie per togliersi uno sfizio”.

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Parlare di questi massacri aiuta, oppure rischia soltanto di accendere polemiche tra opposte fazioni?

“Di recente i media stanno facendo un lavoro egregio, non a caso la notizia della mattanza delle Faroe è stata molto rilanciata e seguita. C’è però da fare molto per i piccoli massacri che non hanno immagini di impatto come quelle arrivate dall’arcipelago norvegese. Bisognerebbe fare di più per impegnare la politica e indirizzare l’opinione pubblica anche nella scelta delle mete turistiche, privilegiando luoghi che fanno delle politiche ambientali soprattutto in campo alimentare il loro fulcro. Il consumo di carne, per tornare a chi dice che in fondo noi sterminiamo le vacche negli allevamenti, sarà il tema dei prossimi anni. Ma sono ottimista, ci salverà la tecnologia”.

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“La pesca sostenibile non esiste, ma la mattanza alle Faroe non è il danno peggiore”

Nella sua esperienza, qual è il disastro ambientale più facilmente visibile nei mari?

“Ci sono troppi pescatori e troppo pochi pesci. Il numero di abitanti sulla terra aumenta e presto altri Paesi vorranno uniformarsi alle nostre abitudini alimentari: immaginare cosa sccederà quando anche i cinesi vorrano mangiare il sushi o gli abitanti di molti paesi africani consumeranno carne con la nostra frequenza mi fa venire i brividi. Il dramma del mare si riassume secondo me nelle “3 P”, cioè pesca, intesa come sfruttamento intensivo, petrolio, cioè i danni causati dal cambio climatico e plastica. In questo momento stiamo dichiarando guerra al mare, ma se il mare la perderà saremo sconfitti anche noi”.

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