MILANO — Il 20 febbraio a Coverciano Pioli riceverà la Panchina d’oro. Gliela assegneranno i suoi colleghi. Si voterà la mattina stessa, come prevede la prassi del premio al migliore allenatore italiano, ed è dunque in teoria possibile che venga scelto un altro candidato. In realtà non è pensabile che succeda qualcosa di diverso dal plebiscito per il demiurgo del Milan dello scudetto, il simbolo della gavetta, l’artefice con Maldini e Massara di un’impresa che viene adesso catalogata come un miracolo sportivo, alla luce degli attuali stenti della squadra scivolata sul bordo della zona Champions. Però il cortocircuito di cui è frequentemente vittima il mondo del calcio, impaziente per definizione, porta al paradosso: se fosse per una consistente parte dei tifosi stessi che lo idolatravano soltanto otto mesi fa, Pioli non dovrebbe più essere sulla panchina milanista il giorno del tardivo plebiscito fiorentino. Il famoso ritornello personalizzato con la frase in inglese “is on fire”, al cui ritmo lui stesso ballò il pomeriggio del 22 maggio 2022 a Reggio Emilia, diventa ora oggetto di sarcasmi amplificati dal web. Consumare i successi alla velocità della luce, dimenticarli per 11 giorni di insuccessi: lo sport preferito dagli italiani e prefigurato dal Manzoni, che lo utilizzò però per Napoleone, si è concretizzato dal 18 gennaio (Inter-Milan 3-0, finale di Supercoppa a Riad) al 29 gennaio (Milan-Sassuolo 2-5 a San Siro), passando attraverso la batosta del 24 gennaio (Lazio-Milan 4-0 all’Olimpico).
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Pioli, dall’altare alla polvere
Dall’altare alla polvere il passo è stato brevissimo. Il Sassuolo (che il cinquantasettenne Stefano Pioli peraltro allenò durante la sua interminabile gavetta) ha dato e il Sassuolo toglie. Essere “on fire”, in fiamme, nell’accezione resa popolare celebre dal suddetto ritornello della canzone “Freed on desire” dell’italiana Gala (anno 1996), diventato coro da stadio, indica lo stato di grazia di un’ascesa inarrestabile. Invece Pioli, che non ha molto di napoleonico se non la consuetudine di scendere dall’altare (gli accadde alla Lazio e all’Inter), si è fermato. Oggi le fiamme sono quelle del rogo – la pira, il supplizio degli eretici – sul quale Pioli viene collocato suo malgrado. L’esonero è impensabile, dati i recentissimi meriti. Né autorizza questo epilogo la struttura societaria del Milan, il cui vertice sportivo rappresentato da Paolo Maldini e Ricky Massara può magari dissentire da alcune scelte dell’allenatore e dalla sua gestione della crisi, ma rimane il garante della figura individuata nel novembre 2019 (anche da Zvonimir Boban, allora dirigente prima del divorzio traumatico del febbraio successivo) per sostituire Marco Giampaolo. Quanto al vertice governativo e finanziario, nessun segnale di esplicita censura arriva dalla proprietà straniera a due teste: RedBird Capital, la società dello sport business americano fondata da Gerry Cardinale, osserva da New York, e fa lo stesso da Londra con Gordon Singer il fondo Elliott, che ha formalmente venduto il club finanziando con un maxi-prestito l’acquisizione. La sintesi tocca al nuovo amministratore delegato Giorgio Furlani, ex manager di Elliott ora a RedBird: si è trasferito da Londra a Milano e il potere decisionale è suo.
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Pioli, tutti i capi d’accusa contro il tecnico
Il calcio italiano resta medievale in molti dei suoi riti e il processo all’allenatore è il più praticato. L’eresia di Pioli è consistita nell’insistenza, ultimamente assai masochistica, su quell’offensivismo spinto che lo aveva eletto a felice rivoluzionario e che ormai gli sta costando il palese sbilanciamento della squadra in campo. La sua conferma per la prossima stagione è in discussione, anche se gli è stato rinnovato il contratto fino a giugno 2025 (3 milioni di euro netti l’anno l’entità ufficiosa) e la linea del club – la sostenibilità economica e il contenimento delle spese con attenzione massima al budget per stipendi e mercato – male si sposa con i cambi di panchina. Rimane però il processo, di cui l’imputato stesso ha anticipato i capi di imputazione. Ha ammesso che il bis dello scudetto è un’utopia, che lo scudetto ora si chiama qualificazione alla prossima Champions e che in quella in corso l’obiettivo è fare bella figura nel duello degli ottavi di finale col Tottenham di Conte. L’accusa è spietata e sciorina la sua arringa: l’allenatore ha perso il controllo della tattica e di uno spogliatoio non più coeso come prima, è confuso, ha smarrito sicurezza, ha sbagliato la preparazione atletica, è correo dei ripetuti infortuni muscolari, in assenza di Maignan in campo e di Ibrahimovic negli spogliatoi non trova più la bussola, ha svalutato e intristito l’oggetto sempre misterioso De Ketelaere, degradandolo a riserva, ha concesso pericolosa anarchia tattica a Theo Hernandez, ha accettato senza fiatare il mercato minimalista del club (De Ketelaere a parte). Quante di queste cose siano imputabili solo a lui, che provvederà (lo ha già preannunciato) a infoltire e rinforzare fisicamente il centrocampo, è tutto da dimostrare. Secondo stereotipo, Milano e il nord del calcio italiano sono solitamente meno impazienti dell’infuocato centro-sud. Ma il derby di campionato incombe e la Panchina d’oro rischia di perdere qualche bullone.
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