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“Mio marito chiuso nella Rsa, per amore gli sto accanto tutto il giorno oltre il vetro”

BOLOGNA – «Sono 420 giorni che sto alla finestra. Io mi appello al ministro della salute Roberto Speranza e al premier Mario Draghi: per favore, fate qualcosa». Dal 7 marzo 2020 Elisabetta Morotti, 62 anni, è accampata fuori dalla finestra della stanza al primo piano della casa di residenza per anziani Giacomo Lercaro di Bologna, dov’è ricoverato suo marito Roberto, con gravissime disabilità. Da quando la struttura si è blindata per il Covid più di un anno fa, Elisabetta passa lì fuori sette giorni su sette, con la pioggia e con la neve, dalle nove di mattina fino a sera, torna a casa solo per dormire. «Con i comitati dei parenti abbiamo scritto lettere e fatto incontri con la Regione e con il Comune, chiedendo di lasciarci entrare almeno adesso che gli ospiti sono vaccinati, ma niente — dice — Intervenire è urgente: queste persone si sentono abbandonate e si stanno lasciando andare».

Elisabetta, come passa le giornate con suo marito?

«La mattina arrivo presto e gli leggo il giornale: urlo così forte che mi sentono dall’altra parte della strada, ma non mi importa. L’altro giorno stavo leggendo un articolo sulla partita del Bologna e qualcuno dai palazzi attorno mi ha gridato il risultato: 4 a 1. A volte facciamo dei quiz con l’Ipad, ma è difficile perché il wifi non sempre prende, da fuori. L’altra sera abbiamo guardato la partita di basket dalla tv che ha in camera, anche se io non sentivo. Qualche volta giochiamo a scarabeo inventandoci le parole, ci aiuta un’operatrice. E all’ora di cena guardiamo sempre l’Eredità. Ormai chi passa mi chiama la Betta del muretto. Tra di noi, scherzando, diciamo che alla fine di questo periodo lui perderà anche l’udito e io la voce».

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Se piove come fa?

«Attacco un pezzo di plastica alla tettoia che c’è sopra la finestra, come se fosse una capanna. Quando fa freddo mi vesto a cipolla, con quattro o cinque maglie, ho anche una copertina. A marzo, con quelle belle giornate, mi ero quasi scottata. Prima del Covid praticamente vivevo lì dentro: gli davo da mangiare, lo accudivo, facevo tutto fuorché alzarlo la mattina. Adesso per esempio se starnutisce e si sporca il naso posso solo dirgli di suonare il campanello. Per fortuna mi lasciano la tapparella su, così posso guardare le manovre che fanno per metterlo a letto: prima lavoravo come operatrice socio sanitaria. Da quando mi hanno chiuso fuori Roberto è dimagrito tantissimo: aveva smesso di mangiare».

Da quando è ricoverato suo marito?

«Dal 2013, per i postumi di un ictus: non parla, ha un’emiparesi e livelli di emoglobina molto bassi che lo obbligano a continue trasfusioni, ma le sue facoltà cognitive sono intatte. Ha fatto la seconda dose del vaccino a febbraio, io dovrei prenotarmi dal 10 maggio, per età. Come caregiver finora non è stato possibile, non essendo conviventi».

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Cosa rispondono le istituzioni alle richieste di voi famigliari?

«La Regione dice che ha messo a disposizione dei tamponi rapidi per permetterci di entrare, ma sono i direttori sanitari delle strutture a impedirlo, perché non vogliono assumersi nessuna responsabilità. Se è così, bisogna che Draghi li obblighi per legge, perché lì dentro ci sono persone, come Roberto, che da 420 giorni non vedono neanche il cielo: non gli è stato concesso neanche di andare in giardino l’estate scorsa».

Nella stanza degli abbracci ci andate?

«Roberto ha sempre rifiutato, perché dice che infilare le mani dentro dei manicotti di plastica per mezz’ora a settimana non è un contatto fisico vero e tangibile. E non posso dargli torto. Qualche volta ha anche provato a scappare fuori in carrozzina. Adesso ha smesso, si è come rassegnato».



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