Penso ossessivamente all’atrocità della morte del neonato tra le braccia della madre stremata dal parto. Come tutti, e come tutti devo farlo con in testa un’espressione di inarrivabile bruttezza: rooming in. Che dentro di me suona come quella cosa per cui quando andavi in Grecia ti si scaricava subito il telefono, quella cosa che ora non c’è più. Ora c’è il rooming in: è bastato sostituire una vocale – sostituzione della quale noi, con un orecchio ostinatamente italiano, neanche ci accorgiamo – ed ecco la nuova sciagura.
Nata come un accorgimento, e finita per diventare una trappola. Ma non voglio parlare del significato. Di quanto sia importante che una madre stia vicino a un neonato e di quanto sia, anche, importante che entrambi sopravvivano. Voglio parlare di quella parola, che non riesco a togliermi dalla testa: rooming in. Stamani mi ha mandato un messaggio Tiziano Scarpa a questo proposito, ricordandomi che mi era capitato di dire, in un’intervista, che noi scrittori italiani parliamo da una lingua sconfitta. Con tutto quello che ne consegue. La marginalità, per esempio. Scrivere da una lingua che si è inventata una subalternità significa scrivere da subalterni.
Perché se di alcune parole è oggettivamente difficile trovare una tradizione dall’inglese (ma non impossibile) per altre è lì, sulla punta della lingua, già pronta. Se usiamo un termine che non ci appartiene, siamo invece costretti ad assumerne il significato proposto. Da chi? Boh, dall’Organizzazione mondiale della sanità in questo caso, da organi di controllo finanziario in altri, dai misteriosi signori della rete e tanti altri.
Cosa significa rooming in? La nanna, fare la nanna, tenere il proprio figlio appena nato tra le braccia, cullarlo, sfamarlo, strapparlo dalle grinfie delle infermiere malmostose, risparmiargli la culletta solitaria… quale di queste cose? Sì, certo, l’Organizzazione mondiale della sanità, sì certo la salute globale. Ma per evitare il male è sempre buona pratica dargli il nome giusto. E persino il bene si trova più a suo agio in un termine che lo raccoglie con grazia.
Eppure parlarne significa essere fraintesi, essere assoldati immediatamente tra le fila dell’autarchia linguistica. Lingua italiana, cibo italiano, pelle italiana eja eja alalà! Che sciocchezza, come se avere rispetto per la propria lingua, la propria storia, il proprio passato fosse prerogativa di un pensiero di destra. Come se lo stesso rispetto non potesse sposarsi all’accoglienza e all’abbraccio dell’altro.
La lingua è un organismo vivo e si modica nella prassi. Guai se così non fosse. Ma cosa c’è di vitale nel chiamare una pratica ancestrale con un termine che non sappiamo neanche tradurre, quando di termini a disposizione ne abbiamo quanti ne vogliamo? Dire che a uccidere quel bambino è stato il rooming in è come fare un gioco di prestigio, mostrare il fazzoletto per permettere di far sparire la colomba. Allontanare il senso, la responsabilità: spersonalizzare, chiamare in causa, appunto, l’Organizzazione mondiale della sanità. Ma soprattutto vuol dire rendere burocratico, e quindi brutto, il primo gesto di una madre verso il neonato. Avvertire fin dal primo istante che quella che verrà non è vita ma life style, una riproduzione quasi esatta dell’esistenza ma senza l’imperfezione, e l’amore.
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