Oliver Stone: “Oggi è difficile fare un film senza urtare la suscettibilità di qualcuno”

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Chi vuole la verità deve andarle molto vicino si dice in “Salvador” uno dei primi film di Oliver Stone. E l’impegno di  Oliver Stone, tre volte premio Oscar, regista di film epocali come “Platoon”, “Wall Street” o “Assassini nati – Natural Born killers” nei suoi ormai quarant’anni di carriera è stato proprio avvicinarsi ogni volta al massimo all’oggetto del suo interesse. Al punto che oggi gli viene costantemente rimproverato di non prenderne adeguata distanza, lasciando ad esempio nei suoi film documentari la parola a Vladimir Putin o a Fidel Castro senza procedere a un’analisi critica. La sua autobiografia, ora pubblicata anche in Italia (Cercando la luce, La nave di Teseo), però non affronta questo tema. Tratta dei suoi primi quarant’anni di vita, si interrompe alla metà degli anni Ottanta, poco dopo l’enorme successo artistico e commerciale di “Platoon”: un’epoca che offriva ai cineasti possibilità che sembrano oggi ormai precluse.

Nelle sue memorie Stone realizza una sorta di racconto archetipico e attribuisce alla sua esperienza di soldato nella guerra del Vietnam il desiderio di verità, cui ha cercato sempre di avvicinarsi tramite il mezzo cinematografico. In questa intervista parla di arte e dei rischi che a suo avviso corre l’espressione artistica.

Si dice che nel momento più buio della sua carriera lei abbia sparso in giardino dei pezzetti di carne d’agnello come sacrificio agli dei greci. Cos’era successo?
“Ero piuttosto frustrato. E anche disperato, evidentemente. Erano i primi anni Ottanta, all’epoca scrivevo moltissime sceneggiature, ma in realtà volevo fare regia. Però non ricevevo molte proposte in quel senso. Solo un film, quello che sarebbe poi stato ‘Top gun’ ma non accettai. Quanto alle divinità greche, sì, ero appassionato della saga di Odisseo, una storia in cui mi identificavo. Lo sa cosa hanno fatto i greci con i loro sacrifici agli dei?

Non ne ho la minima idea.

“Neanch’io. Le mie offerte le ho date ai cani. Così sono servite almeno a loro”.

Le cose però poi sono andate subito meglio. Solo dopo qualche anno ha ricevuto un oscar per “Platoon”. Ma torniamo ai greci…
“Nelle mie opere ci sono continui riferimenti alla mitologia greca. Anche in ‘Platoon’. All’università avevo un professore che era un grande grecista e ci ha sempre esortato a concentrarci: ‘Ragazzi, è tutta questione di attenzione’. E aveva perfettamente ragione. Odisseo ea così bravo a navigare nella vita perché era attento, cauto”.

Odisseo dovette affrontare un’avventura dopo l’altra, per dieci anni non trovò pace. E anche lei definisce frenetici i suoi primi dieci anni nel mondo del cinema.
“Sì. Ed è un peccato. Perché in realtà bisognerebbe potersi prendere una pausa e riflettere. Essere attenti, appunto. Nel cinema i tempi sono molto veloci. Anche per questo ho scritto le mie memorie, per ricordare. Per rivivere tutto e riflettere. Il tempo fugge via. Non riesci a prenderlo”.

Nel suo libro scrive che per lei fare film equivale soprattutto a cogliere la verità. È questo il desiderio che la spinge?
“Certo. All’inizio della mia carriera mi chiedevano molto spesso modifiche in senso più commerciale. Per far soldi. Ma io non ho mai cambiato niente. Volevo fare film basati sulla realtà, quella che ho visto con i miei occhi. Ero stato in Vietnam e i film sul Vietnam che all’epoca davano al cinema non avevano nulla a che fare con la realtà. Per questo ho voluto girare ‘Platoon’. Mi è costato tantissimo fare come volevo. Anche, appunto, qualche sacrificio agli dei greci. Ma per fortuna avevo un produttore, John Daly, che mi copriva le spalle. Era un outsider del sistema. Come me”.

Se, come dice, la sua molla è sempre stata la ricerca della verità, Hollywood non è un incubo per lei?
“I film sono un’illusione, ma queste illusioni possono essere molto potenti. Si prende un materiale e gli si dà forma, tanto che alla fine amplifica la realtà. Non ho mai sentito il bisogno di fare del fotorealismo. Per rappresentare la povertà non dovevo per forza mostrare quella vera. Bisogna cogliere l’essenza della realtà, invece di limitarsi a mostrare quella esterna. In qualunque film si scende sempre a compromessi con la realtà. Oggi lo so, perché ne ho girati abbastanza. Quando ero giovane dovevo ancora impararlo”.

In seguito andando in cerca della verità ha girato anche dei documentari.
“Nel cinema si va dal ‘fantasy estremo’ al naturalismo. La maggior parte dei miei film hanno cercato di porsi a metà strada. Il mio obiettivo è intrattenere il pubblico, non farlo annoiare. Prendiamo ‘JFK’, il mio film sull’attentato a Kennedy. Mi sono documentato all’inverosimile c’è molto materiale, fatti, tantissimi nomi, ma ho trovato il modo di renderlo un thriller politico, accattivante e al contempo stimolante”.

Ha detto che ha rifiutato di girare “Top Gun”…
“… Troppo militare per me”. 

Il protagonista era Tom Cruise. Tre anni dopo lo ha scelto per il suo film pacifista “Nato il 4 luglio”.
“È la straordinaria dimostrazione che il cinema è illusione, vero? Ho ingaggiato Tom Cruise perché era perfetto per il ruolo. Perché è un attore incredibile. Un attore non deve sempre arrivare alla verità. Può cambiare ruolo, essere una volta un fervente patriota e un’altra mettere in discussione le scelte di politica estera del paese. Un regista invece dovrebbe essere più coerente”.

Negli ultimi anni Hollywood è diventata più sincera?
“Non posso rispondere, le mie sarebbero solo ipotesi. Faccio fatica a generalizzare. Hollywood è un sistema, che comprende migliaia di persone. Naturalmente c’è spazio per ingiustizie, bugie e ipocrisie, ma di certo si può dire che Hollywood si è aperta alla diversità. Che oggi si può parlare con più facilità di discriminazione e di giustizia di genere. È un tema importante. Che poi questo sia sempre positivo per il film, è un altro discorso”.

Si spieghi meglio.
“Hollywood è piena di gente che vuole darti direttive. Al momento tutti i film dovrebbero essere il più possibile progressisti, tolleranti e umanitari, bla bla bla. Ma così alla fine non vengono fuori i film migliori. Se tutto è così ordinato e corretto la gente si annoia. Il pubblico vuole vedere la vita com’è davvero, non come dovrebbe teoricamente essere”.

Oggi forse non sarebbe più possibile girare molti dei suoi film, ad esempio “Assassini nati – Natural Born Killers”.  
“Già, sarebbe impossibile davvero. Erano altri tempi. Oggi è difficilissimo girare un film che non urti in qualche modo la sensibilità di qualcuno. È una trappola per i cineasti. Mi spiace tantissimo per i giovani registi, costretti ad aggirare tutti i rischi che comporta fare un film. Non è possibile soddisfare tutti. Ma per via dei social media oggi le reazioni sono amplificate, e più visibili. Così si formano gruppi di persone che squalificano un film magari perché mostra un personaggio femminile che non è forte e consapevole. Ma nella vita reale è così, non tutte le donne sono forti e sicure di sé”. 

Cosa deve fare un regista oggi per sfuggire alla trappola?
“È una domanda stupida, perché la risposta è evidente: tutto quello che serve, senza eccezione”.
(Copyright Die Welt/Lena-Leading European Newspaper Alliance. Traduzione di Emilia Benghi)

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