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Palermo, il geometra Bonafede tradito da un tumore: “Sono Messina Denaro”. E in caserma scrive: “I carabinieri mi hanno trattato bene”

Alle 8 del mattino, il mafioso più ricercato del mondo si è messo in fila allo sportello dell’accettazione della clinica Maddalena di Palermo, come tutti gli altri malati oncologici che il lunedì fanno la terapia. C’erano tre persone davanti a lui. Matteo Messina Denaro, l’uomo delle stragi del ‘92-‘93, il pupillo del capo dei capi Salvatore Riina morto nel 2017, ha atteso pazientemente il suo turno. Chi era impaziente gli stava invece attorno, ma questo il padrino di Castelvetrano ancora non lo sapeva. Non sospettava davvero che gli restava meno di un’ora di libertà. Nella hall della rinomata clinica palermitana, c’erano anche i carabinieri del Ros, che da venerdì erano in allerta, tenendo sotto controllo le visite mediche e le terapie di un misterioso signor Andrea Bonafede, geometra di Campobello di Mazara e nipote di un vecchio mafioso. Era davvero lui o qualcun altro ad essere malato di cancro?
La conferma arriva alle 8,20, quando viene il turno della primula rossa di Cosa nostra ricercata dal giugno 1993: «Sono il paziente Andrea Bonafede», dice all’addetto dell’accettazione. E non sfugge al maresciallo dei carabinieri che si finge paziente pure lui in fila. Fa un cenno ai suoi compagni, basta uno sguardo. Quell’uomo non è il geometra Bonafede.

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Via libera all’operazione”

Il colonnello Lucio Arcidiacono, il capo della squadra, manda un sms al procuratore capo Maurizio de Lucia, che è in attesa nella sua stanza al palazzo di giustizia con il procuratore aggiunto Paolo Guido. Un altro veloce sms è per i colleghi che stanno all’esterno della clinica, pronti ad entrare in azione. Ci sono i carabinieri del Gis, il gruppo di intervento speciale dell’Arma. Ma, all’improvviso, lo scenario cambia. Non si può ancora intervenire. Matteo Messina Denaro esce dalla clinica, probabilmente per prendere un caffè nel bar vicino. Questione di attimi. Appare ancora tranquillo, rilassato. «Attimi infiniti», dirà poi il colonnello Arcidiacono. Appena fuori dalla clinica, in via San Lorenzo, Matteo Messina Denaro si accorge dei carabinieri. E comincia a camminare velocemente verso la Fiat Brava con cui un favoreggiatore l’ha accompagnato (chissà da dove), rimasta parcheggiata in via Domenico Lo Faso. Qui, in una stradina dedicata a un archeologo del 1800, finisce la corsa del mafioso che voleva essere solo un incubo del passato.

Il colonnello Arcidiacono e i suoi ragazzi lo bloccano. «Lei è Matteo Messina Denaro?», dice l’ufficiale. «Lei lo sa chi sono io», risponde a tono il mafioso. Che suona come l’ennesima minaccia. I carabinieri lo bloccano, lui dice: «Mi chiamo Matteo Messina Denaro». Poco dopo arrestano anche l’ultimo autista del latitante, si chiama Giovanni Luppino, un commerciante incensurato di Campobello di Mazara. Questione di attimi, ma questa volta scanditi dagli applausi di tanti palermitani che in quel momento sono imbottigliati nel traffico. Capiscono subito vedendo quei carabinieri con tute mimetiche e passamontagna, altri sono in divisa, altri in borghese. I palermitani applaudono mentre il padrino e il suo complice vengono caricati su un furgone nero. E via verso il vecchio aeroporto militare di Boccadifalco, nel cuore di Palermo, dove c’è la centrale operativa della squadra.

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Hangar “Alfa 11”

È in un hangar malandato rimesso a nuovo dai ragazzi del Ros (“Alfa 11” c’è scritto sul capannone) un pezzo importante di questa storia. L’altro pezzo è al secondo piano del palazzo di giustizia, dove si trovano gli uffici della procura della Repubblica. Carabinieri e magistrati si concentrano sulla pista della malattia del superlatitante tre mesi fa. In quei giorni, le microspie piazzate nelle abitazioni dei familiari di Messina Denaro fanno rimbalzare discorsi su «persone ammalate di tumore», e poi su «interventi chirurgici». Ma sono sempre discorsi riferiti ad altre persone. E, però, discorsi insistenti, con varie ricerche su Google. Sul morbo di Crohn, e poi sul tumore al fegato. I carabinieri annotano ogni parola con cura, cercano le connessioni fra tutti quei discorsi. E, alla fine, si decide di cominciare la più difficile delle indagini. «Come cercare un ago nel pagliaio», si dicono gli investigatori nelle lunghe discussioni. Ma è l’unica strada concreta. La malattia del padrino.

Tre mesi fa, Matteo Messina Denaro è ancora un fantasma. Nessuno dei suoi presunti favoreggiatori intercettati e pedinati da tempo fra Castelvetrano e Campobello dice nulla, o fa passi falsi. Solo i familiari continuano a parlare di malattie e di persone che si sono operate. E, allora, una mattina, il procuratore capo Maurizio de Lucia e l’aggiunto Paolo Guido autorizzano i militari del Ros guidati dal generale Pasquale Angelosanto ad acquisire tutti i dati sui malati oncologici nati nel 1962 in provincia di Trapani. Uno screening su dati provenienti dal ministero della Salute e dell’Economia. Arrivano tantissimi nomi.

Poi, il cerchio si stringe a dieci. Quindi a cinque. I ragazzi del Ros iniziano ad entrare nelle loro vite. Il punto è capire se sono davvero malati oncologici. I primi riscontri danno tutti esito «positivo». Solo un personaggio insospettisce, Andrea Bonafede, il nipote dello storico capomafia Leonardo, deceduto tre anni fa. Risulta avere fatto due interventi fra il 2020 e il 2021, ma qualcosa non torna, perché il giorno di un’operazione a Palermo il suo cellulare non è nel capoluogo, ma a Campobello.

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La poesia della piccola Nadia

Quando arriva nell’hangar, Matteo Messina Denaro in manette si trova davanti un quadretto che non si aspettava. I ragazzi del Ros l’avevano messo lì da tempo, da quando era iniziata questa difficile indagine: è una poesia scritta dalla piccola Nadia Nencioni, una delle cinque vittime della strage di via dei Georgofili, avvenuta a Firenze il 27 maggio 1993. La strage per cui Messina Denaro è condannato all’ergastolo. Nadia aveva 9 anni. Qualche giorno prima della bomba, scrisse una poesia intitolata “Tramonto”. “Il pomeriggio se ne va/il tramonto si avvicina/un momento stupendo/Il sole sta andando via (a letto)/È già sera tutto è finito”. “Tramonto” era il nome in codice dell’operazione Messina Denaro. Adesso, il padrino appare frastornato. Gli fanno levare il giaccone di montone, ha una camicia elegante, tenuta sopra i pantaloni. Al polso, un orologio da 30 mila euro. All’improvviso, chiede un foglio di carta e una penna, scrive: «I carabinieri del Ros e del Gis mi hanno trattato con grande rispetto e umanità. Palermo, 16 gennaio 2023». Firmato: «Matteo Messina Denaro».



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