Perché i referendum fanno (ancora) paura ai partiti

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È un fatto che la Corte costituzionale si riunirà in Consiglio domani, 15 febbraio, per decidere le sorti di 8 quesiti referendari: sei sulla Giustizia, uno sulla depenalizzazione della Cannabis e uno sulla depenalizzazione dell’Eutanasia.

È tristemente un fatto che, nonostante le memorie difensive non siano ancora state presentate, indiscrezioni ricorrenti dicono che almeno 3 degli 8 quesiti andranno incontro a bocciatura.

È un fatto, questa volta di speranza, che il neopresidente della Corte Giuliano Amato durante una riunione con gli assistenti di studio, ha invitato i colleghi a “evitare di cercare qualunque pelo nell’uovo per buttare i referendum nel cestino, ma di consentire, il più possibile, il voto popolare”.

È ancora un fatto che i partiti e il Parlamento non amano i Referendum, non li hanno mai amati; e che la Corte stessa nel corso degli anni ha dato un’interpretazione dell’articolo 75 della nostra Carta costituzionale sempre più restrittiva e “anelastica”.

Questo articolo infatti prevedeva in origine tre soli motivi espliciti di esclusione: non sono ammessi referendum su leggi di ratifica di trattati, su norme tributarie e sui provvedimenti di amnistia e indulto. Nel corso degli anni vi si sono aggiunte limitazioni legate a criteri di: “omogeneità, chiarezza, semplicità, univocità, intelligibilità, coerenza, ragionevolezza, nonché completezza e idoneità a conseguire il fine perseguito”. Requisiti che si prestano a interpretazioni più ampie di quell’articolo 75, rendendo la bocciatura dei quesiti qualcosa di simile a una regola piuttosto che una eccezione.
Non solo. Vanno tenuti nella giusta considerazione altri elementi che, ahinoi, non hanno riscosso la necessaria attenzione presso l’opinione pubblica e il sistema dei media.

È un fatto che, in poche settimane, 3 milioni di cittadini si sono recati a un banchetto nelle strade e nelle piazze o su internet, grazie allo SPID, per sottoscrivere uno dei quesiti. Con ciò si è dimostrato che l’inarrestabile processo di disaffezione verso i partiti e verso le istituzioni non implica, necessariamente, l’esaurirsi della volontà di partecipazione politica. Non equivale, in altre parole, a “Ogni passione spenta” (per citare il bel libro di Vita Sackville-West).
Ed è  ancora un fatto che il Parlamento ha avuto tutto il tempo per trovare una soluzione normativa alle tematiche in questione e ha scelto l’inerzia, nonostante le chiarissime sentenze della Corte costituzionale che lo invitavano a legiferare.

E, infine, è un fatto che dietro quei quesiti si possono intravedere le vite dolenti di tanti cittadini ai quali sono state sottratte – a causa di leggi criminogene- dignità, libertà e giustizia.

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