Piacere, Alberto Angela

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ROMA.  Alberto Angela non trova parcheggio, avvisa che ha qualche minuto di ritardo. Il perfezionista è umano. Arriva trafelato, dolcevita cammello, giacca di tweed. Modi impeccabili, cordiale ma riservatissimo, il ricercatore prestato alla tv, così ama definirsi, festeggia  trent’anni di divulgazione. Da piccolo non catturava le lucertole, sognava gli squali. Anni avventurosi (l’Africa, le sparatorie in Etiopia, il sequestro in Niger, l’incontro con un cannibale, un ippopotamo non proprio amichevole), poi la carriera in Rai. Lo dice subito, a scanso di equivoci: “Non lo avrei mai immaginato, il successo non esiste, esiste il lavoro: sono una persona normale”. Non se la può cavare così: i fan club si moltiplicano, c’è chi lo elegge sex symbol e chi, in piena crisi di governo, nei meme lo aveva già immortalato salvatore della patria accanto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il padre, Piero Angela, che lui chiama Piero, ha fatto la storia della tv. Parlando con Alberto, 58 anni, si capisce che è legatissimo alla madre Margherita, signora riservata dai grandi occhi azzurri. “In questo periodo li vedo poco, per il Covid, ma ci sentiamo sempre”. Sta lavorando a Ostia Antica per la nuova edizione di Ulisse-Il piacere della scoperta. E nel secondo libro che fa parte della trilogia su Nerone (uscirà a primavera con HarperCollins), si concentra sul grande incendio, le nove giornate che hanno sconvolto Roma.

Trent’anni da divulgatore, che impressione le fa?
“Non avrei mai immaginato di fare questo mestiere e di arrivare a questo punto. Nella vita ho fatto tante cose. Sognavo di fare l’oceanografo, volevo studiare gli squali”.

Perché gli squali?
“Non saprei, è un animale preistorico e ha personalità rispetto agli altri che vivono nell’acqua. Il mio mito era Jacques Cousteau, ero attratto dall’esplorazione. Poi a Napoli vedo un ricercatore giapponese chino su un microscopio ottico che guardava le alghe. Ho capito che fare l’oceanografo non voleva dire solo fare immersioni. Da ragazzino disegnavo uomini preistorici e dinosauri, mi sono laureato in Scienze naturali alla Sapienza e ho indirizzato gli studi alla Paleontologia umana. Gli amici andavano a divertirsi, io partivo volontario nelle spedizioni”.

Mai pensato di fare il giornalista?
“Mai. Mi considero un ricercatore prestato alla televisione, ho avuto la fortuna di fare gli scavi con i più grandi archeologi, sono andato in Africa, mi ero iscritto a un’associazione che forniva volontari. In Congo ho volato sui vulcani in eruzione, ho convissuto con le formiche legionarie. Ti trovi in luoghi dove l’orologio non ha senso, devi solo stare attento: tutto punge morde o taglia”. 

Cosa le hanno insegnato quelle spedizioni?

“Lo spirito di gruppo, la psicologia, come sono importanti i dettagli, le battute per smorzare la tensione. Le persone con cui lavori diventano una famiglia, vedevo più loro che i miei”.

Più che Cousteau voleva diventare Indiana Jones?
“Esiste il paleontologo da laboratorio e quello da campo, Indiana Jones ha il suo fascino. Devi saper estrarre, imparare a trovare le cose. Io non vedo mai l’insieme ma i dettagli: se cade qualcosa di minuscolo sotto il tavolo, la trovo”.

La svolta?
“La definirei la chiamata del destino. Facendo gli scavi trovo un osso, la tempia di un ominide: tutti a festeggiare. Mi offrono il PhD a Berkeley, come fare un gol. Di fronte a un tramonto, era il 1988, seduto su un bidone, comincio a pensare che il mio futuro non può essere lontano dall’Italia. Poi si scopre che si erano sbagliati a analizzare il reperto: l’osso trovato non era di un ominide, apparteneva a un babbuino gigante. C’era stato il gol, ma poi il Var: anche una cosa brutta ti indica la via”.

Vuol dire la via per la tv?
“Grazie al centro studi Ligabue comincio a lavorare, scrivo un programma che si chiamava Albatros, roba da pionieri, prendevo le foto dalle enciclopedie. Tv del Canton Ticino, poi Andrea Melodia l’ha comprato e l’ha messo a Telemontecarlo”.

Ha avuto dubbi quando ha iniziato a lavorare con suo padre?
“Ma certo, sai che sei visto malissimo. Anche Piero non era convinto. Al primo grande programma sul corpo umano non mi ha voluto. Poi lo convinse proprio Melodia, che era a Rai 1. Devi dimostrare sul campo di essere bravo, un po’ come Maldini. Mi sono detto: “È un problema nella testa degli altri. Hai un cognome e adesso ti fai un nome””.

Il segreto del divulgatore?
“Le parole. Non devi seguire uno spartito ma fare una jam session, utilizzare il movimento: io cammino, non mi fermo mai. E parlo”.

La popolarità cambia la vita?
“La televisione non mi ha cambiato, cerco di mantenermi normale. Sono come Ulisse che si mette la cera nelle orecchie. Lavoro, studio, il resto è un mondo di plastica. Ma siamo animali sociali, ci pettiniamo la mattina per essere accolti nel gruppo, le dinamiche di gruppo sono fortissime”.

Le sue quali sono?
 “Non sono mondano, sento la falsità di certe situazioni. Apparire non mi piace, si basa tutto su cosa diranno gli altri di te. Il mio ideale sarebbe fare questo lavoro e avere l’anonimato quando cammino per strada”. 

Sono nati i fan club, è stato promosso sex symbol: da ragazzo la corteggiavano?
(ride) “Scherza? No, nessuno diceva che ero bello. Nella comunicazione vale l’insieme, l’aspetto fisico non è fondamentale. Conta la lunghezza d’onda che crei, la parola chiave è empatia”.

Va bene, ma i complimenti le faranno piacere.
“Non devi cadere nella trappola “ora cavalco l’onda”. Molta gente è cambiata. Sì, alcune cose mi fanno piacere, oggi i social amplificano tutto. Nella mia vita, però, più passi indietro che avanti. E silenzio. Parla il lavoro con la mia squadra formidabile”. 

Come si definirebbe?
“Una persona normale. Se sono sulla Terra non posso pensare di stare sulla Luna, sono nato in una famiglia normale. Mi sento bene così”.

Normale e speciale. Dei suoi figli parla poco, li protegge?
“Altri decidono di fare le foto con i figli, io no. I miei genitori sono stati un esempio, l’atmosfera che ho respirato a casa… Preferisco una carbonara alla nouvelle cuisine”.

Quanto ha contato sua madre?  
“Potrei dire che sono molto più figlio di mamma. Piero mi ha guidato nel mondo del pensiero, lei in quello dell’arte e dell’armonia. Si sono sposati giovanissimi, si sono trovati a vivere a Parigi, anni difficili.Credo che questo li abbia uniti ancora di più”.

Ha detto che suo padre è stato il suo Salgari: lei lo è per i suoi figli?
“Per farli addormentare raccontavo loro le cose che avevo visto. I miei tre ragazzi hanno un’apertura mentale che è un po’ il marchio di famiglia. Sono dotati di creatività e distacco, vedono le cose in modo riflessivo, hanno anche loro un approccio alla vita esplorativo. Edoardo studia Nanotecnologie all’Imperial College a Londra, da lui imparo. Riccardo è laureato in Biologia, ha già due master, stesso entusiasmo del sapere. Il piccoletto, Alessandro, ha diciassette anni. Anche lui è pieno di curiosità”.

Diamo un po’ di merito anche a sua moglie Monica?
“Certo, merito diviso in due”.

Che padre è?
“Mai stato severo. Un padre non deve dire le cose, deve comportarsi bene. Fine. Ho sempre applicato questa idea nella vita: “Le persone che sono accanto a te, sei tu””. 

La più grande lezione ricevuta?
“Quando un sopravvissuto di Hiroshima e Nagasaki, con la benda nera sull’occhio, il viso pieno di cicatrici, mi ha detto: ‘Prendersi carico della sofferenza altrui, questa è la pace’. Poteva odiare il mondo, invece no”.

È ottimista?
“Quando guardo i ragazzi sì”.

Sul Venerdì del 12 febbraio 2021

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