Piccolo: “Amo Platini ma non tifo più per la Juve”

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Francesco Piccolo, scrittore, noto esperto di basket, nel calcio ha cominciato tifando Ddr, come ha raccontato. Il suo preferito era Sparwasser, autore del gol ai mondiali del 1974 contro la Germania Ovest? E come si lega il tifo alla sua passione politica?
“Il mio amore per il calcio è segnato da un gol che ho visto in tv quando avevo dieci anni ed ero insieme a mio padre, erano i mondiali di calcio del ’74, si affrontavano le due Germanie ai Mondiali. Quindi era una partita importantissima. Una squadra era fortissima e infatti poi vincerà il mondiale. L’altra no. Una squadra aveva divise moderne e l’altra aveva quelle tute con la cerniera che indossavamo anche noi quando andavamo a fare educazione fisica a scuola.

A un certo punto, dopo che la Germania Ovest ha attaccato per tutta la partita, c’è un lancio lungo, Sparwasser corre corre (era il centravanti della Germania Est) e prende il pallone in faccia. Il pallone ha un rimbalzo strano che spiazza i due difensori e lui si trova davanti a Sepp Maier e lo infila.
Questo gol nella mia vita non ha a che fare solo col calcio, ma con la politica. È decisivo, perché mio padre mi aveva detto che dovevamo fare il tifo per la Germania Ovest, la più forte, quelli come noi; e a me segretamente faceva molta simpatia quella squadra con queste tute da educazione fisica, sfigate e che sta subendo da tutta la partita. Quindi quando Sparwasser segna io ho un sussulto che cerco di nascondere e quel sussulto ha voluto dire per me diventare comunista. Penso che nemmeno Fidel Castro o Che Guevara possono sapere il momento esatto in cui sono diventati comunisti. Io invece lo so: al minuto 77 di una partita di calcio. E la cosa pazzesca è che non solo io sono diventato comunista per un gol, ma per un caso incredibile: perché se Sparwasser non avesse preso il pallone in faccia, non avrebbe segnato quel gol e io non mi sarei accorto di quello che avevo dentro”.

Andava allo stadio da piccolo? Per chi tifava e perché?
“Andavo allo stadio da piccolo, forse sono andato a vedere la Casertana tantissime volte, ma ricordo la prima emozione dello stadio vero, il San Paolo e lì sono stato due volte. Ho assistito a due zero a zero. Il primo era Napoli-Cagliari e ci andammo perché c’era Gigi Riva e io ero piccolissimo e praticamente il Napoli attaccò per tutta la partita. Albertosi fece duecento parate ma la partita finì zero a zero. E poi andammo a vedere Italia-Turchia, credo fossero le qualificazioni ai Mondiali ed ero sempre molto piccolo, e finì sempre zero a zero. Mi ricordo Anastasi che stava lì fermo con le mani sui fianchi ad aspettare che l’azione venisse in attacco. Queste partite avrebbero potuto uccidere la passione in chiunque tranne in quelli che amano veramente il calcio e che sanno che lo zero a zero ha un fascino. 

La mia squadra da bambino è stata la Juventus. Io credo di aver tifato prima il Milan da piccolissimo perché il mio idolo era Gianni Rivera, ma poi quando sono diventato più cosciente ho tifato la Juve per due motivi: tutta la mia famiglia tifava la Juve e mio padre tifava il Napoli. E anche perché tifare il Napoli significava soffrire e tifare la Juve significava essere tronfi e vincitori e credo questa potrebbe essere stata una delle cose che mi ha convinto”. 

Il suo giocatore è stato Platini. Perché? Quanto conta la famosa foto di lui, sdraiato sul campo, dopo il gol annullato nel 1985 contro l’Argentinos Juniors?

“Platini aveva quella specie di atteggiamento disinteressato, era come se giocasse per divertimento con gli amici. Fumava e diceva che era Bonini che non doveva fumare perché era lui che aveva il compito di correre. Quell’arroganza e anche quell’intelligenza mi affascinavano tantissimo e ovviamente tutto questo è anche sintetizzato da quella foto, perché le reazioni dei calciatori a un gol annullato sono tragiche e invece Platini diceva: è solo una partita di calcio, come se fosse nel campetto sotto casa”.

Quale partita, oltre il 1974, l’ha emozionata di più? Chi è erano i suoi calciatori preferiti?
“Le partite che mi hanno emozionato di più, oltre a quella del 1974, credo siano state due, una ovviamente è Italia-Brasile dell’82 perché si colloca proprio al centro della mia giovinezza. Io stavo preparando gli esami di maturità e con i miei amici a casa. C’era mio padre che saltava sul divano e urlava: non ci prendono più, sul gol del 4 a 2 di Antognoni, ma nessuno si accorse che era stato annullato. 

La partita che mi ha emozionato di più l’ho vista allo stadio, sempre al San Paolo, fu Napoli-Milan, quando il Napoli vinse lo scudetto col Milan, credo 3 a 2 e mi colpì molto vedere questi giocatori del Milan schierati in linea al calcio d’inizio e che poi cominciarono a muoversi tutti insieme avanti e indietro. In televisione si capiva molto meno. Vederla allo stadio fu una esperienza grandiosa anche perché vidi una specie di potenza assoluta rispetto al Napoli che era fortissimo ma sembrava giocasse in un’altra epoca come quando con la play station metti a confronto le squadre di oggi e le squadre del passato. 

I miei calciatori preferiti sono stati Rivera, Bettega, un po’ anche Tardelli, e Platini più di tutti”. 

Quando ha smesso di tifare e perché?
“Quando la Juve a Perugia perse lo scudetto, io sentii una specie di distacco e mi accorsi che non mi dispiaceva, e anzi un po’ mi faceva piacere. E quel giorno non decisi di non essere più tifoso, ma presi atto che evidentemente non lo ero già più.

Poi ero troppo grande per cominciare a tifare in maniera seria qualche squadra. Ma di conseguenza ho cominciato a guardare il calcio con quell’atteggiamento un po’ oggettivo, senza i condizionamenti forti delle tifoserie che sono molto divertenti ma sono ancora più divertenti da guardare da fuori. Un po’ questo ha a che fare con il ruolo di un intellettuale nella società. Cioè non stare dentro le cose come faceva Sartre ma starne fuori e guardarle come faceva Aron. Nel calcio questa cosa funziona molto perché ti godi le imprese, le squadre che giocano bene, i giocatori forti e non hai incazzature, rancori, invidie che penso siano una cosa bellissima ma quel sentimento l’ho provato da ragazzo”.

Meglio il calcio o il basket? Qual è la differenza per lei?
“Non è una domanda a cui posso rispondere. Il calcio mi piace molto, è uno sport che ho imparato ad amare. Il basket ha a che fare con la mia famiglia, con il mio Dna, noi nel basket ci siamo entrati dentro quasi senza nemmeno sceglierlo”. 

La sua famiglia è legata alla JuveCaserta. Suo padre che faceva? Lei ha giocato, allenato, tifato e scritto: cosa le è riuscito meglio? E cosa le piace di più del basket?
“Il basket mi appartiene a tal punto che non mi sono mai chiesto se mi piace. Per quanto riguarda la mia famiglia, ha fondato la Juve Caserta (si chiama così perché i miei zii erano appunto tifosi della Juventus), mio padre ne è stato dirigente, i miei zii sono stati giocatori, allenatori, general manager di quella squadra e quindi per noi il basket e la Juve Caserta sono stati qualcosa che ci riguardava fin da piccoli. Era come andare a scuola, per me. Per quanto riguarda il fatto che ho allenato, giocato, tifato e scritto, cosa mi è riuscito meglio non so. Ma c’è un’intervista per Sky che vale come documento: Flavio Tranquillo, che per una serie di circostanze in quel periodo era a Caserta ed eravamo amici e quindi veniva a vedere le mie partite, quel giorno ha detto in tv pubblicamente che io ero il Magic Johnson di Caserta. Magic Johnson è il mio mito in assoluto, quell’intervista è negli archivi. Io mi baso su questo”. 

Cosa significa una partita senza spettatori? 
“Una partita senza spettatori è un controsenso di uno spettacolo. Però penso che dal punto di vista del campo sia una specie di dovere realizzato. In fondo quello che si chiede a una squadra, sempre, è di non pensare al pubblico, di restare concentrati sulla partita. E poi c’è il fatto che è vero, le partite oggi sono senza spettatori, ma quando è stato interrotto il campionato è stato un segnale di angoscia. A me il fatto che ci sia il campionato mi sembra un segnale di piccola normalità che mi dà sollievo”. 

Quali sono stati i suoi giocatori di basket preferiti, oltre Gentile e Esposito?
“Il grande mito della mia vita è stato Magic Johnson perché l’idea che un giocatore di due metri fosse un playmaker così intelligente da far andare veloce una squadra per tutto il campionato, mi sembrava meraviglioso e oltretutto era un mito perché è stato risolutivo oltre le sue forze. Per me è lui il più grande giocatore di basket. Non dico oggettivamente, perché essendo esistito Michael Jordan non si può dire; ma una cosa è vedere chi è oggettivamente il migliore e una cosa è amare qualcuno. E io amavo Magic Johnson”. 

Perché bisogna amare Boscia Tanjevic?
“Tanjevic è uno dei miti della mia vita. Quando è arrivato ad allenare Caserta con quella voce, con quella determinazione e l’idea di prendere un ragazzino così giovane come Gentile e buttarlo in campo, ci toglieva il fiato. Quasi non guardavamo le partite per guardare lui in panchina. Poi nel tempo ci siamo sentiti, lui ha letto anche i miei libri, ma per me è stato impossibile avere un rapporto con lui perché balbettavo, mi imbarazzava: per me era un mito, non potevo parlarci al telefono”.

Che allenatore di calcio le piace? 
“Mi piacciono gli allenatori che fanno giocare bene e non sono invasivi. Forse Liedholm è stato la perfezione in questo”.

Che cos’è uno spogliatoio?
“Lo dice benissimo Nanni Moretti in Palombella rossa, in un monologo tutto condivisibile. Ha a che fare, soprattutto, con quella specie di odore di canfora passata sui muscoli, è il luogo dove tutto va a finire in una partita: la gioia, il dolore, l’incazzatura con i compagni, con se stessi, la forza di qualcuno che aveva fatto vincere la partita. È un luogo mitico”.

Qual è stata la sua partita migliore, da giocatore o da allenatore.
“La mia partita migliore da giocatore è una finale di playoff con la Little basket perché segnai gli ultimi 11 punti e fummo promossi; mi ricordo che una mia amica alla fine della partita mi chiese di darle la maglietta per conservarla. Questa cosa non è stata fatta al Madison Square Garden e non era l’Nba, ma è il momento della mia vita di giocatore”.

Il calciatore che preferisce oggi?
“Il calciatore che mi piace di più oggi, perché mi sembra elegantissimo, fa sempre la cosa giusta, è un lottatore ed è intelligente, è De Jong del Barcellona”. 

Maradona è stato il più grande calciatore della storia? O è stato la più grande star, punk, del calcio? Perché è diventato così popolare? Le piaceva e cosa la colpiva di lui?
“In quella partita del 3 a 2, della vittoria dello scudetto del Milan, vidi la grandezza di Maradona anche come uomo di spettacolo, Cominciò a fare rabone, tunnel, palleggi in campo perché capiva che dal punto di vista della sostanza non si poteva fare niente e allora voleva che il pubblico si divertisse almeno. Però questo giocatore, questa star, quando si è allenato, quando ha deciso di mettere non soltanto il talento ma anche la cura del talento, ha vinto il Mondiale da solo. Quindi io penso sia il più grande”. 

Meglio Maradona o Kobe?
“Preferisco Maradona, ma solo perché Kobe non è il giocatore del mio cuore anche se è gigantesco. Era vicino alla perfezione, però la perfezione è Michael Jordan. Però io Kobe l’ho visto quando era bambino fare canestri durante l’intervallo delle partite di suo padre”.

Ha visto ‘The Last Dance’? 
The Last Dance è la cosa più bella che ho visto durante il lockdown, ed è uno dei documentari più belli degli ultimi tempi perché racconta in maniera epica quello che per me è già epico: fa vedere a tutti quello che io già avevo visto in diretta, di notte. È come se spiegasse agli altri cosa è il basket”.

Se dovesse scrivere storie di sport quali sarebbero le prime tre?
“Se dovessi scrivere storie di sport, mi piacerebbe scrivere cose che ho visto da bambino. Per esempio, certi giri d’Italia come quello di Baronchelli che stava per battere Eddie Merckx o anche Ocaña che stava per battere Eddie Merckx. I mondiali di calcio del 1970 e per quanto riguarda il basket quelle meravigliose partite Simmenthal-Ignis Varese, due squadre così forti che alla fine dell’anno erano spesso a pari punti e andavano allo spareggio. Quegli spareggi che vedevo con mio padre sono una cosa che mi piacerebbe raccontare”. 

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