Più disoccupati e più posti vacanti: il paradosso che frena la ripresa italiana

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MILANO – Più disoccupati e più posti vacanti, ovvero che le aziende aspettano di riempire in assenza di candidati adeguati. E’ il paradosso del lavoro nel quale l’Italia ha approcciato la crisi del coronavirus, che paradossalmente l’ha congelato solo per un effetto ottico dato dal blocco dei licenziamenti e del massiccio dispiegamento di ammortizzatori sociali a fronte di un’attività economica atterrata. Ma è il circolo vizioso che gli addetti ai lavori si augurano di rompere alla ripresa “normale” delle attività, per non pagare ulteriormente dazio.

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A gettar luce su quanto accaduto negli ultimi anni è stato il rapporto di Randstad Research che ha messo sotto la lente la crescita del mismatch tra domanda e offerta di lavoro negli anni tra il 2004 e il 2019: è la “mancata corrispondenza tra i requisiti richiesti dalle aziende e le competenze/qualifiche offerte dai lavoratori”. Un disallineamento che è cresciuto nonostante salisse in parallelo la “fame” di lavoro, con il tasso di disoccupazione che è passato dal 6 al 10 per cento. Eppure contemporaneamente “le difficolta? di reperimento si sono alzate a livelli record, in un divario tra domanda ed offerta di lavoro sempre più profondo e complesso”, dice l’Istituto che fa capo alla multinazionale del lavoro.

“Nel periodo – dettaglia Randstad – si contano 140.000 contabili e 145.000 muratori occupati in meno, 144.000 magazzinieri e 77.000 camerieri in più, sono aumentate, ma solo in una certa misura, alcune professioni chiave, come specialisti in marketing (+92.000), analisti software (+86.000) e medici (+30.000), ma non si è risolta quella che appare la ragione principale della mancata corrispondenza: la carenza nella preparazione tecnico-scientifica e nell’istruzione di base, al primo posto tra i diversi ostacoli al reperimento di figure professionali evidenziati dalle imprese”. Numeri che fanno il paio con il problema da poco sollevato anche da Banca d’Italia in una serie di studi ad hoc che hanno evidenziato l’impoverimento della qualità del lavoro, in particolare nel Mezzogiorno, e il rinnovato dualismo tra precari e autonomi a basso reddito e il resto dei lavoratori. “E allora è urgente potenziare la formazione e aumentare il tasso di attività di giovani e donne per un mercato del lavoro più efficiente”, spiega ancora il rapporto. Indicazioni presenti anche nel discorso che il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha tenuto per chiedere la fiducia e durante il quale ha ricordato la necessità di rafforzare i centri per l’impiego, lavorare immediatamente sulle politiche attive, potenziare la formazione tecnica ed equilibrare il gap salariale e di prospettive di uomini e donne.

C’è un indicatore che dà conto di questo mismatch, la cosiddetta Curva di Beveridge che indica proprio il rapporto tra posti vacanti e disoccupazione. Logica vorrebbe che all’avvicinarsi della piena occupazione aumentasse il numero di posti vacanti, perché le aziende dovrebbero fare fatica a trovare i profili necessari, essendo questi già al lavoro altrove. Invece nel 2019, alle porte della crisi dalla quale ancora non siamo usciti, l’Italia era al “punto minimo dell’efficienza del mercato del lavoro”. Dati alla mano è stato in particolare dalla crisi finanziaria dell’area euroo in avanti che la situazione è peggiorata: nel periodo 2012-2014 si sono registrati meno posti vacanti insieme a un forte aumento della disoccupazione e nella successiva “ripresina” del 2015-2019 la disoccupazione è andata in lieve calo ma l’aumento dei posti vacanti fino sopra i livelli del 2007 è stato “troppo brusco”: sono più che raddoppiati.

L’anno scorso c’è stato un miglioramento “ma non per una rinnovata efficienza, quanto per l’effetto combinato del blocco dei licenziamenti e dell’aumento degli inattivi, con minori posti vacanti per il ridimensionamento delle attività dei datori di lavoro”. In pratica, le aziende non hanno avuto ragione di domandare lavoro e d’altra parte molte persone sono uscite dal mercato stesso. “Uno scenario che evidenzia il rischio di frenare la ripresa post-Covid, se un rialzo della disoccupazione a seguito dello sblocco dei licenziamenti dovesse essere accompagnato da un aumento dei posti di lavoro vacanti”.

Daniele Fano, coordinatore del comitato scientifico di Randstad Research, ha commentato le evidenze dei numeri richiamando l’urgenza di “un “Piano Marshall” per il lavoro: la sfida italiana per il matching tra domanda e offerta si vince con un radicale miglioramento dell’istruzione e della formazione, con l’aumento del tasso di partecipazione al lavoro delle donne, dei giovani e di tutti i cittadini in età adulta”. Idea condivisibile anche guardando ai numeri della contemporanea indagine di InfoJobs, secondo la quale chi ha piani di assunzione per il 2021 punta innanzitutto sulla qualità delle risorse (37,2%) e quasi all’unanimità (74,4%) le aziende che non aumenteranno gli organici sono pronte a investire sulla formazione e sullo sviluppo delle risorse interne per trattenere i talenti già nell’organico, eventualmente riqualificandoli.

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Randstad ricorda anche quali siano le 5 professioni più difficili da reperire sul totale delle assunzioni pianificate nel 2019: specialisti di saldatura elettrica e a norme ASME, analisti e progettisti di software, saldatori e tagliatori a fiamma, tecnici programmatori e tecnici meccanici. Profili specializzati, dunque, ma non bisogna dimenticare i grandi numeri: sulla base del numero assoluto di assunzioni previste, i grandi assenti sono camerieri, cuochi, conduttori di mezzi pesanti e camion, commessi, tecnici della vendita e della distribuzione.

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