Primo maggio, Edoardo Bennato: “Dedichiamo il concerto ai giovani, i più danneggiati dalla pandemia”

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Edoardo Bennato torna sul palco del Concertone del Primo Maggio, testimone della generazione artistica più adulta tra quelle rappresentante sul palco della Cavea. Un confronto cui il cantautore napoletano, 74 anni, non solo non si è mai sottratto ma che pratica anche nei suoi dischi, come dimostrano le collaborazioni del suo ultimo album Non c’è, il rapper Clementino per il brano L’uomo nero e Morgan su Perché.  

Bennato, dopo un anno la pandemia non si è risolta ma si torna sul palco e lentamente ci si riavvicina alla normalità.
“L’anno scorso a maggio non ci si poteva neanche spostare, c’era una segregazione coatta: per il Concerto del Primo maggio con mio fratello Eugenio registrammo a Napoli La realtà non può essere questa. Quella canzone era anche un modo per sottolineare, anche se con tono poetico, l’assurdità dei tempi che stiamo vivendo. In teoria sì stiamo tornando alla normalità, ma il germe di questa paralisi, di quella che molti definiscono guerra mondiale, è ancora presente nell’aria, è tra noi. Per indole non sono pessimista, ma il vero ottimista è chi cerca di assumere tutti gli elementi per poter svolgere un’azione senza troppi rischi. L’ottimista si ingegna”.

Qual è il significato del Primo maggio.
“Il Primo maggio mi riporta a mio padre che per più di 40 anni ha lavorato nello stabilimento siderurgico di Bagnoli, lavoro per antonomasia, quello per il quale ti devi svegliare alle 6 di mattina e tornare alle 7 di sera, il lavoro inteso anche come rischio, e mio padre alla fine aveva i polmoni distrutti. Il Primo maggio significa il lavoro che si fa per i propri figli, anch’io per mia figlia adolescente, un impegno costante nel essere attivi e propositivi”.

Cosa suonerà?
“Suonerò Italiani e Capitan Uncino, due brani molto diversi tra loro e lontani nel tempo. Il primo, più recente, cerca fin dove è possibile di sgombrare il campo da tutta la demagogia e la retorica per indagare le tensioni che ci sono tra il Nord e il Sud, nel Mondo, in Europa e in Italia, dove tutto ruota intorno alla dicotomia tra Reggio Emilia e Reggio Calabria, tra Bolzano e Trapani. In Europa “dicono di noi: improvvisatori”, a Bruxelles ci definiscono “mafiosi, scalmanati”, è vero siamo sempre come i Guelfi e i Ghibellini, divisi in fazioni che si contendono il potere, terroni e padani, “ma fortunatamente italiani”. La verità è anche che i francesi, i tedeschi, i belgi, ci criticano perché ci invidiano, invidiano la culla della civiltà, un’area geografica che, come giustamente ricorda Oscar Farinetti, ha una straordinaria varietà di risorse e prodotti naturali. L’unico problema è che ci siamo noi, un po’ cialtroni un po’ geniali. L’invito è a stringersi intorno a una bandiera: tutta rossa? tutta verde? tricolore? Capitano Uncino, da moralista quale è, dice invece che Peter Pan è un qualunquista, un esibizionista, il più pericoloso, ma il vero pericolo è lui, il violento. Tutto giocato sull’ironia”.

Al Concertone si confrontano diverse generazioni di artisti e cantautori, cosa pensa delle nuove espressioni musicali italiane?
“Ci sono ambiti della produzione italiana, come le automobili e la moda, in cui le nostre sigle sono apprezzate nel mondo mentre nell’arte intesa come la musica viviamo ai confini dell’impero aglo-americano, per cui lo scimmiottamento dei modelli americani è costante. I rapper e i trapper di Los Angeles o di Harlem diventano punti di riferimento per i ragazzini spaesati italiani, i quai finiscono per abdicare totalmente. Le istituzioni a partire dal Midac dovrebbero fare in modo che i più giovani frequentassero quei teatri in cui si mettono in scena Puccini e Verdi, comunque autorevoli, ma soprattutto Rossini, l’antesignano dei musical rock americani. Sarebbe fondamentale. Con questo non voglio dire che non ci siano genialità e individualità: Clementino, Morgan, e devo ammettere che anche Madame si distingue, rifiuta gli stereotipi, è una ribelle ed è donna, percepisce più degli altri le schizofrenie della nostra cultura”.

Per la verità anche molti artisti della sua generazione, lei compreso, hanno attinto a piene mani dal blues e dal rock’n’roll angloamericano.
“Qualche anno fa con mia madre andai a vedere un concerto di Renato Carosone. Poi andammo a salutarlo nei camerini, e lui disse a mia madre: ‘Signo’, vostro figlio è il mio erede”. Si riferiva al musical “Joe Sarnataro” con Renzo Arbore e Lino Banfi, in cui c’erano canzonette come Torero, anche Nisa e Carosone utilizzavano certe schizofrenie e paradossi napoletani per fare musica, canzonette e rock’n’roll. Io ho coniugato il blues del Mississippi e dei neri americani con la napoletanità e il dialetto napoletano. Il dialetto napoletano ci ha salvato dall’imitazione e dallo scimmiottamento che ci avrebbe relegato al ruolo secondario che osserviamo in molti artisti giovani di oggi, in cui le nostre origini si sono completamente perse. Il Concertone è dedicato ai giovani, agli adolescenti che patiscono la situazione che viviamo”.

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