Rai, Marino Sinibaldi lascia Radio 3: “Una vita tra i libri, ma in questo Paese le classi dirigenti non leggono”

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Marino Sinibaldi, lei è cresciuto in una casa piena di libri?

“Al contrario. Non ce ne erano. Mio padre, tranviere, però ogni sera rientrava con il giornale in mano, Momento sera. Quando ha capito che leggere mi piaceva irresistibilmente mi ha aiutato moltissimo a coltivare la mia vocazione”.

Da ragazzo cosa sognava di fare?

“Il calciatore. Da un certo punto in poi ho pensato di fare il musicista, suonavo la chitarra. Poi a 23 anni, nel 1977, un anno che ho vissuto da militante di Lotta Continua, sono stato assunto in biblioteca. Lì ho capito che stare tra i libri era la mia vita”.

Quando è entrato in Rai?

“Alla fine degli anni Ottanta, da collaboratore. Nel 1995 m’inventai Lampi d’estate, che fu il prototipo di Fahrenheit. Quattro anni dopo stavo visitando una mostra al Palazzo dell’Esposizione quando mi chiamò moglie: “Ti hanno cercato dalla Rai”. “Ti facciamo vicedirettore”, mi dissero, quando mi presentai all’appuntamento. “Ma io non sono nemmeno un interno”, risposi”.

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Quando è diventato direttore di Radio 3?

“Nel 2009”.

Venerdì, a 67 anni, andrà in pensione. Le pesa lasciare?

“Non è un passaggio traumatico, perché ci vado per raggiunti limiti di età, ma niente è più traumatico dell’età (Ride). L’ultimo anno è stato molto complicato. Fare radio durante la pandemia è faticoso”.

In che senso?

“Abbiamo dovuto svuotare gli studi. Sono spazi privi di aerazione, si parla a distanza ravvicinata, non si possono disinfettare i microfoni con l’urgenza che la pandemia imporrebbe. Tutti i conduttori pertanto vanno in onda da casa, grazie a una valigetta chiamata Codec. In realtà ormai basta avere una app sul cellulare”.

Da quando c’è il Covid la gente ascolta di più la radio?

“C’è stata una crescita degli ascolti. Gli accessi digitali durante il primo lockdown sono addirittura triplicati. C’è stata una crescita di temperatura nel rapporto con gli ascoltatori. Siamo stati percepiti come un luogo di relazione: la gente trovava da noi i concetti e i teatri a cui non poteva più assistere”.

Come definirebbe Radio 3?

“E’ una comunità di ascoltatori, ma anche un’istituzione culturale. Non abbiamo concorrenza. Nel senso che se l’ascoltatore non ci segue fa altro, legge un libro o va a teatro o a un concerto di musica sinfonica”.

Che ascolti fate?

“Una media di un milione e 300mila ascoltatori al giorno. Abbiamo uno share del 2 per cento. Siamo in dodicesima posizione per share”.

Qual è la trasmissione con più ascolti?

Prima pagina, con circa 450mila ascoltatori. La inventò Enzo Forcella, che fu il primo direttore di Radio3 dopo la riforma del 1975. Varò le telefonate con gli ascoltatori, sette otto chiamate a puntata, e non è mai capitato, in 45 anni, che uno abbia detto una parolaccia. Non è il Paese reale, vero?”

Come lo spiega?

“Se rimani dentro una dimensione civile la gente finisce per rispettare le tue condizioni. I nostri ascoltatori non vogliono parteggiare, ma ascoltare e imparare. Quando lo racconto in giro, mi dicono: “Siete un’isola felice”. Mi piace ribattere: “Una penisola felice”.

Enzo Forcella è stato una grande firma di Repubblica.

“Era un uomo aperto, con una capacità di ascolto rara. Quando con Gad Lerner e Luigi Manconi scrivemmo il libro sui giovani del movimento del 1977 mi mandò a chiamare. Voleva capire. Si poneva delle domande. Aveva una curiosità che nasceva da una profonda inquietudine”.

Com’era fare giornalismo culturale alla radio quando lei ha esordito?

“Non c’erano Google e nemmeno i social. Mi presentavo con una valigetta riempita di libri, non mancavano mai la Garzantina universale e quella della letteratura. Se avevo un dubbio su uno scrittore le tiravo fuori”.

Come nasce Fahrenheit?

Lampi d’estate ebbe subito successo, tanto che si fece tutto l’anno. L’idea era di fare parlare i libri col mondo, col reale. Il servizio pubblico è inclusione. Stava cambiando tutto. Consideri che in quegli anni nascono i Festival, quello di Mantova e il salone del Libro di Torino. Irrompe la Seconda Repubblica, che non è solo un fatto politico, ma un evento più grande che cambia l’agenda e modifica le domande. Pensi solo all’immigrazione, che diventa una cosa enorme, divisiva. Cambia la società e anche il rapporto col potere, e di conseguenza il modo di fare informazione”.

Qual era la sua idea?

Volevo una trasmissione che abbattesse la concezione aristocratica della cultura”.

Gli italiani che rapporto hanno col libro?

“Difficile, per ragioni storiche. Quando nel 1964 si compie quella che Tullio De Mauro definì l’unificazione linguistica del Paese, c’era già potente la tv. Negli altri Paesi il processo di alfabetizzazione si era realizzato trent’anni prima. Questo spiega l’enorme importanza della tv da noi”.

Leggiamo poco perché scontiamo ancora quel ritardo?

“Per leggere bisogna alzare gli occhi da terra, devi avere un desiderio di altre storie, di conoscenza, e pure di evasione, ma se la tua vita è già dura questo desiderio di vivere le vite degli altri non ti sorge dentro”.  

Perché da noi non legge nemmeno la classe dirigente?

“Non leggono molti dirigenti, i politici, i professionisti. Tutte le statistiche dicono che lo fanno in misura minore rispetto ai loro parigrado degli altri Paesi, e con differenze più marcate in confronto alle rispettive classi popolari. Una volta lo feci notare all’ambasciatore francese. E lui mi disse: “Da noi dicono di leggere, in realtà non lo fanno”. “Da noi non si vergognano nemmeno di fingere”, gli ho risposto. Il che mi sembra quasi peggio”.

Cosa sono stati i libri per lei?

“La porta sul mondo. Un modo per governare le mie emozioni, per dare forza alle domande importanti”.

Il suo libro del cuore?

“Sono tanti. Come si fa a rispondere?”

Uno?

“Il Don Chisciotte, perché dentro ci sono tanti libri”.

Leggiamo poco, ma i festival letterari sono affollati.

“Ne parlai con lo scrittore americano Salvatore Scibona e lui mi disse: “Voi siete cattolici, e vi piace l’ecclesia, lo stare in piazza, i protestanti preferiscono il rapporto diretto col testo”. Mi pare una buona spiegazione”.

Forse perché la lettura impone solitudine, e ciò stride col nostro carattere?

“Impone isolamento, e da noi, come fece notare Gramsci, l’isolamento è visto come marginalità, oggi però non leggere, considerata l’enorme disponibilità della cultura, a me pare intollerabile”.

Quanto è stato importante fare politica in Lotta continua?

“Ho imparato a stare dentro una comunità di persone. E sono nate amicizie per la vita, con Lerner e Manconi ci sentiamo regolarmente”.

Si sente ancora di sinistra?

“Certo che sì”.

Che differenze vede con l’Italia degli anni Settanta?

“Sono cresciuto a Valle Aurelia, che allora era una borgata. C’era una socialità fortissima. La gente discuteva in continuazione. Sugli autobus. Alle fermate. Si parlava nei bar. Mio padre alle sei tornava dal lavoro si rifugiava nella sezione della Dc. Si giocava a carte, e si stava insieme. C’erano, nel quartiere, quelle del Pci, del Dc, persino del Psdi. Era c’era il circolo di Lotta continua”.

E oggi?

“Oggi i miei coetanei alle sei sono davanti a Sky sport, o guardano i nipoti, o vanno al corso di burraco o giocano a tennis. Tutti hanno altro da fare”.

I telefonini quanto hanno inciso nel cambiamento?

“Quando ero ragazzo le attese erano enormi. Si aspettava ovunque. Dal medico. Negli uffici pubblici. Dal barbiere. Era un’Italia che aspettava paziente il proprio turno. Io mi portavo appresso sempre un libro. Chi non leggeva fissava il muro, o attaccava bottone. Oggi fissiamo tutti il cellulare. Quei tempi non torneranno più”.

Come sono cambiati gli italiani con la pandemia?

“Io ho sofferto tantissimo, perché mi ha tolto la possibilità di stare in mezzo alla gente. Mi è sempre piaciuto parlare, condividere, fare socialità. Mia figlia vive in Inghilterra e non la vedo da mesi. E’ cambiata l’idea di relazione. Un tempo se starnutivi in treno nasceva una discussione, oggi scappavano via tutti”.

Come immagina la società dopo il virus?

“Mi piaceva tanto andare allo stadio, dove dopo un gol ci si abbracciava con quello che ti stava accanto. Lo potremo rifare? Non so se vinceremo le nostre paure, anche col vaccino”.

E’ stato complicato gestire i rapporti col potere politico?

 “Direi di no, è stato un potere discreto”.

Cosa è cambiato in questi tredici anni di direzione?

“Il budget si è dimezzato. Un tempo avevamo molte più risorse”

In definitiva, cosa ha cercato di trasmettere alla comunità di ascoltatori?

“Non so, forse l’idea che le bellezze della cultura vanno condivise”

E cosa ne ha avuto in cambio?

“Ho fatto il mestiere più bello del mondo, che volere di più?”

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