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Regeni, l’ultima bugia dell’Egitto: “Il Kenya ci ha detto che un testimone ha mentito”. Ma non è vero

C’è un nuovo tassello da dover aggiungere al grande e complesso puzzle delle bugie egiziane sulla morte di Giulio Regeni. Si tratta però di un tassello assai particolare: e non tanto nella sostanza, quanto nella forma. E’ stato infatti offerto all’Italia in via ufficiale, direttamente dalle mani del procuratore generale della repubblica araba, Hamada Al Sawi. E dall’Italia è stato ricevuto, in maniera estremamente irrituale, direttamente dall’ambasciatore italiano Gianpaolo Cantini. In sostanza: ci hanno raccontato l’ennesima bugia e noi siamo andati a prenderla con l’uniforme di gala.

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L’Egitto ha infatti deciso di depositare – nel processo ai quattro ufficiali dei servizi accusati del sequestro, la morte e le torture di Giulio Regeni che sta per cominciare a Roma – una lunga memoria che bolla come errata la ricostruzione che hanno fatto la procura, con il sostituto procuratore Sergio Colaiocco e il procuratore capo Michele Prestipino, i carabinieri del Ros e i poliziotti dello Sco che hanno svolto le indagini, il gup di Roma che ha deciso il rinvio a giudizio. E lo fa utilizzando una serie di argomenti già noti (e soprattutto già smentiti dai fatti). Ma lo fa anche raccontando una bugia inedita. Dicono, in sostanza: le vostre indagini sono basate sulle dichiarazioni di alcuni testimoni che raccontano il falso. E la prova che raccontano il falso arriva dal Kenya. Il riferimento è al teste Gamma (così gli investigatori italiani hanno chiamato i testimoni per proteggerne l’identità e dunque l’incolumità) che aveva messo a verbale una circostanza: nel 2017, in un ristorante di Nayrobi, aveva ascoltato il maggiore Sharif (accusato di aver ucciso Giulio) raccontare e confessare a un collega keniano di aver rapito e torturato Giulio la notte del 25 gennaio del 2016. Era in corso, infatti, un vertice delle polizie africane. E i due si erano casualmente incontrati in un ristorante. L’Italia aveva avviato una rogatoria con il Kenya per cercare un riscontro a queste dichiarazioni. E lo stesso aveva fatto il Cairo. Bene, dice il procuratore generale egiziano nei nuovi documenti: “L’atto riporta la smentita di quanto era stato sostenuto circa un agente di polizia egiziano, durante una riunione nella capitale del Kenya che asseriva di aver avuto un ruolo nel rapimento e nell’aggressione di Regeni”.

Spie e segreti. in Kenya la chiave della verità su Giulio Regeni

Peccato, però, che si tratti di una bugia. Nel senso che la risposta keniana dice altro: “Risulta impossibile – si legge – provvedere all’esecuzione della richiesta dell’assistenza, in quanto gli elementi riportati non sono sufficienti per identificare l’ufficiale della polizia keniano oggetto della richiesta”.

“Così gli 007 egiziani uccisero Giulio Regeni. E decisero di depistare le indagini”

Quindi: non hanno scritto, non è vero. Hanno scritto: non sappiamo. Perché l’Egitto mente? In chiaroscuro si vede il solito tentativo di depistare. Mentre è evidenziato quello che pensano degli investigatori italiani. Scrivono infatti: “La procura generale egiziana – si legge – ritiene i sospetti delle autorità investigative italiane il risultato di conclusioni scorrette, esagerate e logicamente inaccettabili, contrarie alle regole penali internazionali compresa la presunzione d’innocenza e la necessità di fornire prove inconfutabili per gli indagati per processarli”. Parole che fanno sorgere una seconda domanda: perché – a fronte di un Paese che non ha mai voluto collaborare, tanto da non aver voluto comunicare nemmeno gli indirizzi degli imputati – il nostro ambasciatore è andato a prendere personalmente il fascicolo degli insulti? L’unica cosa certa è che il 14 ottobre, davanti alla Corte di Assise di Roma, il processo a Tariq Sabir, Athar Kamel, Uhsan Helmi e Magdi Sharif comincerà.

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