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Ristori, cassa integrazione e blocco dei licenziamenti non bastano più: l’Italia deve creare nuove imprese

L’autore è economista del lavoro presso la Direzione per l’Occupazione, il Lavoro e gli Affari Sociali dell’Ocse a Parigi

Il 2020 è finito con 444mila occupati in meno e 482 inattivi in più. Ancora pochi se comparati alla caduta del PIL che ha vissuto l’Italia (-8,9%). Ma tantissimi rispetto alla promessa (intenibile) che “nessuno avrebbe dovuto perdere il posto di lavoro”. Per questo motivo, cogliendo l’occasione del cambio di Governo, è ora necessario passare a una fase nuova nelle politiche di risposta alla crisi.

L’economia mondiale, inclusa quella italiana, hanno ancora bisogno di un corposo aiuto pubblico. Bisogna evitare di ripetere uno degli errori più gravi della scorsa crisi, quando, nel 2010, da entrambi i lati dell’Atlantico le misure di sostegno furono ritirate troppo in fretta soffocando sul nascere la ripresa economica che si annunciava.

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Tuttavia, continuare ad aiutare famiglie e imprese non significa mantenere le stesse identiche politiche introdotte a marzo, in attesa che un giorno, di colpo, la crisi scatenata dal Covid-19 finisca. Anche in questi primi giorni del nuovo Governo, il dibattito ruota essenzialmente sui ristori, il rinnovo della Cassa integrazione e il divieto di licenziamento. Misure che hanno consentito di attutire il colpo e tenere in piedi buona parte del tessuto economico. Tuttavia, a quasi un anno dall’inizio della pandemia, è necessario che queste misure comincino ad evolvere avendo come obiettivo la creazione di posti di lavoro e la ripresa.

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La cassa integrazione è stata essenziale per proteggere famiglie e imprese dallo shock. Però, è uno strumento che comporta corposi tagli salariali e che obbliga il lavoratore a stare assolutamente fermo, pena la perdita del posto e del sussidio. In Cig un lavoratore non può svolgere (in maniera regolare) un altro lavoro (o lavoretto), non riceve aiuto per cercare possibili alternative se l’impresa non dovesse più riaprire, né gli sono offerte opportunità di formazione. Con l’intento di difendere il posto di lavoro, alla lunga una Cig di questo genere rischia di diventare una trappola per il lavoratore.

Il divieto di licenziamento, poi, ha un enorme valore politico, ma non è per nulla chiaro quale sia stato il ruolo effettivo che ha giocato nei mesi scorsi. L’opinione comune è che abbia evitato un’ondata di licenziamenti. Tuttavia, l’Italia è l’unico paese europeo ad avere introdotto un divieto di tale sorta, ma negli altri paesi, non si è osservato un picco di licenziamenti. Il dubbio è che, in presenza di cassa integrazione a costo zero per tutti, il divieto di licenziamento sia stata una misura ridondante ma da cui oggi è politicamente difficilissimo uscire. Licenziare costa e comporta sempre qualche rischio (e in genere l’imprenditore non trova piacere a farlo). Se c’è la possibilità di trasferire i costi del lavoro allo Stato con la Cig, le imprese non licenziano. In ogni caso, un margine di aggiustamento lo si è trovato al margine, non rinnovando i contratti temporanei e bloccando le assunzioni.

A un anno dallo scoppio della pandemia, a parte difendere l’esistente, è necessario pensare a creare nuovi posti di lavoro perché quelli che sono scomparsi non torneranno (sembra un’ovvietà, ma non lo è se la discussione resta esclusivamente sulle politiche di natura difensiva). Durante il confinamento primaverile, il numero di nuove imprese era il 65% in meno rispetto al 2019. Dopo essersi parzialmente riprese in estate, in autunno sono nuovamente scese dell’8% rispetto all’anno prima. Senza nuove imprese non ci sarà ripresa. Per aiutare la creazione d’impresa, si possono usare incentivi finanziari, ma servirebbero soprattutto semplificazioni normative. Inoltre, per proteggere chi prende rischi, il sussidio di disoccupazione, finora limitato ai lavoratori dipendenti e dal 1 gennaio, con l’ISCRO, disponibile anche per gli autonomi iscritti alla gestione separata INPS, potrebbe essere esteso a tutti gli autonomi. Infine, anche le parti sociali potrebbero pensare a come adattare le disposizioni dei contratti collettivi per favorire al massimo la creazione di nuove imprese (anche lì, partendo da una semplificazione di alcune disposizioni e con un supporto pratico ai nuovi imprenditori).

Infine, nota dolentissima, le politiche attive. L’Italia sconta un ritardo decennale e le misure degli ultimi anni non hanno portato a passi avanti significativi. Ora, però, non c’è più tempo. Per questo motivo, mentre continuano gli sforzi per portare i servizi pubblici per l’impiego a standard europei, è necessario coinvolgere in maniera strutturale anche i servizi privati che hanno competenze ed esperienza nel campo. Bisogna farlo per essere in grado di rispondere al numero crescente di richieste ma anche per favorire un trasferimento di competenze dal privato al pubblico per recuperare il ritardo accumulato.

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La crisi non è finita e non è il momento di lasciare famiglie e imprese senza aiuti. Limitarsi, però, a rinnovare di trimestre in trimestre le stesse identiche misure di marzo significa mettere la testa sotto la sabbia rispetto alle sfide che sempre più chiaramente ci troveremo di fronte. Non sappiamo esattamente come sarà il futuro. Ma sappiamo che non torneremo d’incanto al 20 febbraio 2020 quando tutto cominciò.



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