Robbie Robertson: “Per salire sul palco avevo bisogno di un ipnotizzatore”

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Stage fright è il terzo album della Band, pubblicato nel 1970. Robbie Robertson ci è tornato su, ha messo le mani tra i nastri originali, registrati praticamente dal vivo alla Woodstock Playhouse, ha ritrovato vecchie sessioni, vecchi concerti, ha tolto la polvere del tempo che si era posata su quella musica e ha prodotto un bellissimo cofanetto, uscito il 12 febbraio, che non solo riporta in vita quell’album, che contiene alcuni capolavori del calibro di The Shape I’m In, The W.S. Walcott Medicine Show, Strawberry Wine e la canzone che dà il titolo all’album, ma anche un intero concerto del 1971 alla Royal Albert Hall, una magnifica session intitolata Calgary Hotel Demo, alcune outtakes, un nuovo mix 5.1 di Bob Clearmountain, la riproduzione del singolo spagnolo di Time To Kill, poster, foto, un libro, tutto quello che può far felice un fan della grande band americana. Ma quello che conta è la musica, sono i suoni e le voci di Robbie Robertson, Richard Manuel, Levon Helm, Rick Danko e Garth Hudson, la straordinaria capacità della Band di mettere insieme il passato, il presente e il futuro della grande musica americana, di unire la Storia e le storie, di trasformare il rock in arte. Robbie Robertson è particolarmente contento di questa riedizione nata per celebrare i 50 anni del disco, uscita con qualche mese di ritardo a causa della pandemia: “E’ stato molto bello ritrovare i materiali dell’epoca, riascoltare come eravamo, rivivere quei momenti e riportare alla luce un album che ancora oggi mi emoziona”.

Quale fu lo spunto iniziale del lavoro?

“Una delle fonti di ispirazione è stato il film di Hitchcock, Stage Fright (Paura in palcoscenico del 1950, con Marlene Dietrich), un film che mi è molto piaciuto, il cui titolo mi è sempre rimasto in testa e mi affascinava. E poi la vera e propria paura del palcoscenico, quella che ho provato tantissime volte, da quando a sedici anni ho iniziato a esibirmi, quando ho iniziato a suonare con Ronnie Hawkins, quando siamo diventati The Band o quando siamo andati in tour con Bob Dylan. Certo, è una cosa che pensi ti debba prima o poi passare, a furia di fare concerti, e non c’è dubbio che il nervosismo dei primi anni non lo provi più quando lavori da tanto tempo. Ci sono diversi livelli di ‘paura da palcoscenico’, alcuni più grandi, altri che continui a provare tutte le sere”.

Ricorda delle serate particolari in cui quella paura la provò ancora?

“Sì, ad esempio quando si trattò di andare in scena al festival di Woodstock, salendo sul palco pensarci ‘oh mio Dio…’. Oppure quando facemmo il nostro ultimo concerto, nel 1976, per The Last Waltz, ero eccitato e nervoso, sapevo di dover fare un grande lavoro, e farlo bene, dovevo suonare con tanti grandi artisti, non avevamo fatto le prove, dovevo ricordare non solo le mie canzoni ma anche quelle degli altri, non potevo fallire e l’ansia era grande. Poi però guardi gli altri che sono con te, sai di non essere da solo, cominci a suonare e ti concentri sulla musica, entri in una situazione psicologica completamente diversa e le cose cambiano, la paura passa”.

La canzone che da il titolo all’album parla di un momento di paura specifico…

“Eravamo nel backstage del Winterland, a San Francisco nel 1969, per il nostro primo concerto in quella sala e io mi sentivo molto male, avevo la febbre e un vero attacco di panico. Venne un ipnotizzatore, riuscì davvero a vedere la mia mente, mi rimise in condizione di poter salire in scena. Fui molto affascinato da quell’esperienza e scrissi la canzone”.

Il disco riflette anche una diversa situazione tra di voi…

“Le cose erano cambiate tra di noi, ed era del tutto normale che lo fossero. Non stavamo più insieme nella stessa casa, non passavamo tutto il tempo insieme, stavamo ancora bene, eravamo ancora fratelli, ma eravamo anche cresciuti ed era più difficile mettere tutto insieme. Il meglio che potessi fare era alzarmi al mattino, andare in studio e aspettare che gli altri arrivassero alla Woodstock Playhouse dove registravamo. C’erano troppe distrazioni, circolava troppa droga, e c’era poi un po’ di tensione per la presenza di Todd Rundgren, che era il produttore del disco con noi, che in qualche modo interveniva sui nostri equilibri. Tutto questo rendeva il lavoro diverso dal solito, ma quando si iniziava, quando ci mettevamo in cerchio a suonavamo l’uno agli altri, la magia scattava ancora, immediatamente. Quindi anche se era più difficile che in passato ne valeva la pena, era sempre una cosa meravigliosa”.

Era cambiato anche il mondo attorno a voi.

“Penso di sì, tutto quello che avevamo vissuto, l’assassinio dei fratelli Kennedy, quello di Martin Luther King, anche la morte di Malcom X, la guerra del Vietnam, ci avevano fatto crescere in una maniera diversa, gli artisti sapevano che non stavano solo facendo musica ma che erano la voce di una generazione. Ti sentivi nella posizione di poter condividere i tuoi e i loro sentimenti, sentivi di essere parte di qualcosa di più grande, di un sogno collettivo e di un movimento per realizzarlo, e sapevi che quella violenza, quegli omicidi, servivano a fermare quel movimento. A Woodstock ci fu la più grande rappresentazione di tutto questo, la musica e i giovani insieme, con la loro voce, che dicevano di essere fratelli e sorelle, che non volevano la guerra e la violenza. Ma le cose non andarono come sognavamo”.

Questo portò anche lei a cambiare il suo modo di scrivere.

“Sì, fu il primo album in cui mi spinsi a scrivere in maniera più autobiografica. Fino a quel momento mi ero visto sempre e solo come uno storyteller, che scriveva storie in cui altri potevano riconoscersi liberamente, non in maniera ovvia e diretta. Invece, dato che nel 1970 le cose erano cambiate, avevamo tutti una nuvola più scura sulle nostre teste, iniziai a parlare di me stesso, di quello che provavo, di quello che vedevo stava accadendo agli altri. The Shape I’m In, è stata scritta pensando a Richard Manuel, ai suoi problemi, a quello che stava vivendo, la scrissi e gli dissi ‘la devi cantare’. Lui lo fece subito, non disse ‘un momento, è troppo personale, lasciamo perdere’, non pensava che ci fosse un dito puntato contro di lui. Tutto era naturale, era vero, coinvolgevamo noi stessi completamente, raccontavamo le nostre storie e le nostre esperienze, ed è esattamente quello che facemmo con Stage Fright. E’ un vero documento di quello che accadeva in quel momento a noi cinque, con i nostri problemi, alcuni con le famiglie e i figli, altri sperimentando altre cose, ma era una riflessione onesta della nostra condizione”.

In questa nuova versione l’ordine delle canzoni è cambiato. Come mai?

“La sequenza originale era un’altra ed è quella che ho riportato in questa nuova versione. All’epoca ne scegliemmo un’altra perché volevamo dare risalto non solo alle canzoni che scrivevo io ma al lavoro di Levon e di Richard. Ma ho sempre pensato che alcuni gioielli fossero rimasti sepolti e ho colto l’occasione per far tornare il disco alla sua sequenza originale. E poi anche il remix è più fedele a quello che volevamo all’epoca, allora lo fecero Glynn Jones e Todd Rundgren mentre noi eravamo in tour. Adesso con questo box set tutto è tornato come doveva essere, anche i limiti tecnologici dell’epoca non ci sono più, il suono è quello giusto. E’ il raggiungimento di un obiettivo che avevo in mente da molti anni e sono molto contento del risultato, più emozionato che in altre occasioni”.

Nel cofanetto c’è anche un bellissimo concerto alla Royal Albert Hall registrato in quel 1971, dopo la pubblicazione dell’album. Tornavate in quello spazio per la prima volta dopo il concerto del 1966 con Dylan…

“Fu una cosa meravigliosa. Cinque anni prima c’era solo gente arrabbiata che urlava contro Dylan e noi per il ‘tradimento’ della causa del folk. E invece cinque anni dopo davanti a noi c’era solo gente entusiasta, che applaudiva, ballava ed era entusiasta. E’ stato uno dei nostri migliori concerti in assoluto e sono molto contento che oggi possa essere ascoltato”.

Lei è sempre stato un’artista impegnato e attento a quello che le accade attorno. Cosa pensa della situazione americana di oggi?

“C’è divisione, c’è solitudine, c’è un individualismo sfrenato, c’è chi pensa che ci siano cospirazioni ovunque. Come è possibile che siamo arrivati a tanto? Il Paese merita di meglio e la gente deve tornare a stare insieme, spalla a spalla, a stare insieme davvero”

E la musica?

“La musica non è la voce di una generazione, è grande intrattenimento, ‘cool and fun’, ma non parla della vita, del mondo, di quello che ci accade e di come vorremmo che fosse, si consuma rapidamente, da soddisfazione per qualche minuto, è usa e getta. Certo ci sono sempre dei grandi artisti e delle cose belle da ascoltare, ma non hanno lo stesso peso nella vita della gente che avevano prima. Ed è un peccato”.

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