Ruben Östlund, dalle Palme d’oro alla giuria: “Sarò un presidente democratico. Servono film che divertano e facciano discutere”

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Alle due Palme d’oro vinte con The square e Triangle of sadness si aggiunge quella per la simpatia. Seduto nel salone degli ambasciatori con vista sul porto mozzafiato, il regista svedese Ruben Östlund, sorriso da folletto, affronta tutti temi caldi di un’edizione del Festival in cui è chiamato a fare da presidente giuria (con lui, tra gli altri, Brie Larson, Paul Dano, Julia Ducournau). Ci racconta cosa cerca in un film, del cinema italiano, della provocazione e delle polemiche, del suo nuovo folle film. “È decisamente più rilassante essere in giuria che avere un film in concorso”, esordisce.

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Lei ha detto lo scorso anno che la seconda Palma d’oro l’aveva rassicurata che la prima non le era stata data per errore. Come si fa a stare in giuria e non fare errori?
“Difficile parlarne prima di vedere i film. Ma è importante il fatto che non devi cercare di avere persone che provano ad andare d’accordo, sembrare intelligente, ma invece devi seguire l’istinto e dire davvero ciò che pensano. E vorrei questo tipo di atmosfera in cui nessuno sente che può dire qualcosa di stupido. Vorrei togliere via il prestigio e portare avanti onestà nelle opinioni. Non voglio che chi ha più prestigio o eloquio sovrasti gli altri. Sarò democratico”.

Che qualità deve avere un film per essere la perfetta Palma d’oro?
“Cannes per me rappresenta un cinema che fa porre domande, provochi discussioni, che renda impossibile uscire dal cinema e non discutere di quel che si è visto, anche se non si è d’accordo. È un’esperienza collettiva, se non c’è niente di cui parlare all’uscita non vale la pena di uscire, ti vedi i film in salotto. Quanto al contenuto, beh cambia con il tempo. Ad esempio quando ho girato Il triangolo della tristezza volevo creare un film divertente e selvaggio perché ero così stanco della noiosa tradizione artistica europea. Ma ci sarà qualcosa di nuovo in seguito”.

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Leggerà le recensioni e i commenti che girano intorno al festival?
“Sarebbe bene che i giurati non fossero influenzati dal mondo esterno, i critici eccetera. Non leggeremo le recensioni, no”.

Ci sono tante questioni nei criteri: inclusività, il messaggio politico, la presenza di cineaste, Fremaux ha detto che se deve decidere tra due film uguali sceglie quello di una regista.
“No, i film in concorso saranno giudicati egualmente. Un conto è la selezione, altro è il lavoro della giuria: qui contano solo i film”.

E le polemiche ad esempio sul film di Catherine Corsini, prima esclusa e poi riammessa in gara dopo le accuse per i comportamenti sul set, ne è consapevole?
“Non ho sentito molto su questo, non penso che dovrebbe influenzare il modo in cui guardiamo il film. Decideremo solo sui film”.

Cosa pensa delle polemiche che hanno accompagnato l’avvio del festival, le dichiarazioni sulla presenza di Depp, le accuse di Adèle Haenel?
“Penso che il movimento #MeToo sia stato importante, perché ha portato sul tavolo molte cose di cui non abbiamo discusso e siamo diventati più consapevoli di una certa struttura e di una certa cultura. Ma è anche assurdo puntare solo il dito sulle persone cercando di scoprire i cattivi. Perché c’era una cultura che ha creato questo comportamento. Non possiamo dare la colpa solo agli individui, dobbiamo dare la colpa alla cultura e al contesto in cui hanno agito. Poi dobbiamo seguire le regole, la giustizia e le condanne, che sono quelle legali”.

Diceva che le piacciono i film che influenzano il comportamento.
“I film cambiano e da sempre hanno cambiato in modo assurdo e interessante i nostri comportamenti. Ricordo che quando è uscito Scene da un matrimonio di Bergman in Svezia e Danimarca c’è stato un aumento folle dei divorzi. Oppure tanti arrestati nel mio paese dicono come prima cosa ‘parlerò solo in presenza del mio avvocato, ho diritto a una chiamata, come ci hanno insegnato i troppi film americani’. Dobbiamo considerare che i film che premieremo avranno più attenzione e cambieranno il punto di vista di più persone. E magari vedremo un film e non saremo d’accordo, sarà una discussione in cui ci confronteremo con diversi punti di vista. È una lotta sui punti di vista che hai sulla società e gli esseri umani. Fa parte della storia di Cannes ed è l’opposto del lato commerciale dell’industria, dove contano il mercato e i numeri. Qui ci si confronta su ciò in cui si crede, della società e degli esseri umani, e vale la pena di lottare per questo”.

Triangle of sadness ha provocato molti commenti di tipo sociologico.
“Penso che questo e altri film riguardino un periodo in cui eravamo completamente ossessionati dall’individuo. Abbiamo diviso il mondo in bianco e nero, vittime e colpevoli. E non abbiamo inserito le cose in un contesto. Quando lo fai cominci a fare i conti con la società. E quando si inizia a trattare con la società, si inizia a trattare con la lotta di classe”.

E per quanto riguarda l’aspetto commerciale del suo cinema? I suoi film stanno diventando sempre più grandi. Anche se il prossimo sembra un progetto provocatorio.
“Il problema che abbiamo avuto nel cinema europeo è che quando otteniamo i soldi dallo stato, dallo Swedish Film Institute ad esempio, siamo economicamente sicuri, quindi non dobbiamo raggiungere il pubblico. E penso che sia fantastico avere un cinema finanziato con fondi pubblici, perché puoi correre molti più rischi. Non devi avere solo un interesse economico per quello che fai. Ma ad esempio, nel cinema americano, sono molto più bravi a raggiungere il pubblico. Quindi dobbiamo trarre una certa ispirazione da quella cultura e comprendere gli aspetti positivi di un settore guidato dal mercato. Però dobbiamo anche comprendere gli aspetti positivi di un’industria che ha a che fare con una forma d’arte. Così per molti anni ho pensato che il cinema d’autore europeo era come se stesse imitando Haneke, ancora e ancora. E il pubblico ha perso interesse. Sembrava che i registi volessero ‘posare’ alla Haneke e abbiamo perso il pubblico. Quindi il mio obiettivo, con gli ultimi tre film che stavo facendo, era sicuramente far sì che il pubblico avesse un’esperienza andando al cinema, che si divertisse. Ma questo non significa togliere i contenuti d’interesse”.

Quest’anno ci sono tre film italiani in concorso. Bellocchio, Moretti, Rohrwacher. Che rapporto ha con il cinema italiano?
“Conosco bene il cinema di questi tre autori. E quanto al cinema italiano, se guardo ai maestri di quando ero alla scuola di cinema, De Sica per noi era il Dio e il neoralismo era quello di cui ci nutrivamo quotidianamente. Roy Andersson è il regista che mi è molto vicino, facciamo ore di discussione, e lui torna sempre a parlare di Ladri di biciclette. Mi rimase impresso il racconto che mi fece il mio mentore, che a Cannes andò al Casinò e vide Vittorio De Sica seduto al tavolo da gioco, completamente depresso, che stava solo buttando i soldi sul tavolo della roulette russa. È come se avesse visto il lato oscuro del successo. E poi Lina Wertmüller che ho scoperto tardi, quando scrivevo Triangle of sadness qualcuno mi ha detto che gli ricordava Travolti da un insolito destino… e allora ho visto quel film e  Pasqualino Settebellezze. Lei era la Buñuel italiana, sicura di sé, divertente”.

Lei ha detto che vuole essere il primo a vincere tre Palme d’oro. Significa che impedirà a Ken Loach quest’anno di vincere la terza.
“Certo che no. Se il suo film merita la vincerà. Vuole dire che il mio prossimo traguardo sarà quattro”.

Fellini dopo aver vinto la Palma d’oro con La dolce vita non volle più tornare in concorso, Bellocchio invece vuole venirci. Lei?
“In gara, fino alla fine”.

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