Sanremo 2021, Vittorio Lingiardi: “Il Festival somiglia a uno stadio, ha bisogno di una collettività che partecipa”

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Professor Lingiardi, da psicoanalista appassionato di Sanremo, come si spiega questo calo degli ascolti? È legato a un sentimento diverso del Paese, a questo anno di pandemia?

“Direi che il dato riflette una flessione dell’umore nazionale. Sanremo è sempre stata l’epopea nazional-popolare dell’evasione. Alcuni anni più riuscita, altri più bollita. Ma sempre con discrete e temporanee capacità di rimozione. Oggi fare uno spettacolo rimuovendo la presenza del Covid è impossibile. Anzi, lo spettacolo finisce inevitabilmente per mettere in scena e dunque performare l’emergenza: sala vuota, fiori che arrivano sul carrello, distanziamenti di sicurezza. L’inevitabile conflitto tra evasione e consapevolezza ha forse demotivato, un po’ depressivamente, una fetta di pubblico. Ho visto infatti che in seconda serata sono scomparsi i carrelli portafiori (sostituiti da valletti con guanti) e sono comparsi spettatori in effige di palloncino”.

Quanto dipende dal teatro vuoto, dall’assenza di corpi?

“Secondo me parecchio. I teatri senza pubblico ci hanno mostrato un magnifico Barbiere di Siviglia al Teatro dell’Opera di Roma e una magnifica Salomè alla Scala di Milano. Con un numero di spettatori ovviamente inferiore, la magia del teatro, anche vuoto, riesce a passare anche in televisione. Sanremo, più simile a uno stadio, ha bisogno di un corpo collettivo che partecipa, di carrellate sul pubblico, di applausi o fischi veri. Se i protagonisti non possono toccarsi, se Sanremo perde il corpo, inevitabilmente finisce per essere meno ‘toccante’. Anche perché mette in scena quello che con tristezza, ma sacrosanta responsabilità, facciamo tutti i giorni: l’autocontenimento del corpo, la sottrazione del gesto, il raffreddamento dello slancio”.

Sanremo, seconda serata. Entra in scena Fiorello come fosse Achille Lauro: “Fate presto col vaccino”

Fiorello come Achille Lauro: ma il piumaggio, sulle sue spalle, non è luccicante ma nero come quello di una corvo. Per l’apertura della seconda serata del Festival di Sanremo, questa volta partendo dall’esterno dell’Ariston dove solo lo scorso anno era posizionato il red carpet circondato dai fan, ora arriva, in solitaria, ‘Fiore’. “Questa è la platea che piace a me”, ha commentato lo showman, rivolgendosi al Teatro Ariston vuoto, pieno soltanto di palloncini colorati, poggiati sulle poltroncine. Poi ha fatto un appello alla classe politica: “Fate presto una campagna vaccinale potente, perché questo incubo finisca”

I conduttori, gli ospiti e i cantanti in gara sembrano condizionati, trattenuti, sospesi. Fare i conti con questa situazione sembra schiacciare un po’ tutti. Come se la tipica leggerezza sanremese fosse un canone poco opportuno.

“È così. L’impegno dei conduttori si vede, ma forse quest’anno così inedito aveva bisogno di un formato completamente nuovo. Riproporre lo stesso formato, le stesse lunghezze e lungaggini, forse ha remato un po’ contro. Forse ci voleva una macchina più agile. Oppure l’operazione inversa, sposare con più decisione il momento, fare scelte più forti. Usare Sanremo non per dimenticare (impossibile) ma per ripassare la memoria nazionale e popolare di questo anno. L’apparizione lampo dell’infermiera simbolo, peraltro dolcissima, è stata un’occasione mancata. Se evochiamo il fantasma, allora dobbiamo sentire anche il rumore delle catene”.

Chi se la cava meglio e perché?

“Non ho competenze tecniche per dirlo. Ma usando le competenze emotive direi che solo Loredana Bertè è riuscita a sospendere, con la sua presenza trasgressiva e la sua voce di sempre, la triste congiuntura del tempo. Ma lei, si sa, è una vera extraterrestre. Lei stessa lo dice: ‘Sono il padre delle mie carezze e la madre delle mie esperienze'”.

Sono anche cambiate le abitudini di fruizione della tv?

“Credo proprio di sì. Non dimentichiamo che in questo anno anche i meno televisivi lo sono diventati almeno un po’. Ma il trionfo delle serie e delle piattaforme ha di nuovo riorganizzato la nostra temporalità e ha enfatizzato il potere della scelta e della velocità. Sanremo, con tutto l’affetto di un vecchio spettatore, continua a essere troppo lungo e pieno di momenti in cui uno si distrae e passa ad altro”.

Dai dati di ascolto scorporati si vede come in crescita ci siano i ragazzi, magari una parte di quelli che seguono “Amici”, una fetta che già c’era ed è aumentata. Un pubblico che segue questo glam pop, qui alle volte un po’ anemico. Mancano forse i personaggi più classici che gli appassionati storici vogliono vedere?

“Sì sembrerebbe un Sanremo, già l’edizione scorsa lo è stata, attento soprattutto a quel pubblico giovanile che ama rivoluzioni estetiche non troppo impegnative e fantasmagorie gender poco perturbanti. Quella parte di pubblico giovane già addomesticato dal pop televisivo di Amici o X Factor. Achille Lauro lo scorso anno ha sicuramente lasciato il segno. Quest’anno forse è più addomesticato, anche se il treccione rosso di Mina è stata un’idea simbolicamente felice. Quanto alle vecchie glorie da recuperare, attenzione all’effetto museo delle cere. Se sono glorie, che siano anche gloriose e non solo d’epoca”.

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