Se la vicenda di Mario Tuti alla fine diventa una lezione di garantismo

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Mario Tuti rappresenta, per molti versi, il “nemico assoluto”. O meglio: per una parte rilevante degli italiani, la sua vicenda politica e giudiziaria propone tutti i tratti del perfetto terrorista fascista. Nato e cresciuto a Empoli, nel 1971 aderisce a Ordine Nuovo e, pochi anni dopo, fonda il Fronte Nazionale Rivoluzionario. Nel 1975, alcuni esponenti di quella organizzazione vengono arrestati a seguito di una serie di attentati. Durante una perquisizione nel suo appartamento, Tuti uccide due agenti e ne ferisce gravemente un altro.

Fuggirà in Francia ma verrà arrestato nel luglio dello stesso anno, grazie a una operazione congiunta della polizia italiana e di quella francese. Una volta estradato, verrà condannato all’ergastolo per duplice omicidio. Nel 1976, nell’ambito del processo per gli attentati lungo il tratto ferroviario Firenze-Chiusi, subisce un’ulteriore condanna a 20 anni per strage, detenzione illegale di armi da guerra e riorganizzazione del Partito fascista.

In carcere, nel 1981, partecipa all’uccisione del neofascista Ermanno Buzzi, considerato un delatore. Nel 1987 è tra gli organizzatori della rivolta nell’istituto penitenziario di Porto Azzurro. In ultimo, nel 1992, verrà definitivamente assolto nel processo per la strage dell’Italicus (4 agosto 1974).

Mario Tuti oggi ha 75 anni e ne ha passati in carcere 46. Dal 2004 si trova in regime di semilibertà: durante il giorno lavora in una comunità per tossicomani a Tarquinia; la sera rientra nel carcere di Civitavecchia per trascorrervi le ore notturne.

Ad agosto di quest’anno, succede che, durante una licenza, viene ripreso da un servizio di Rainews24 mentre partecipa a un campo estivo del Blocco Studentesco, organizzazione giovanile di estrema destra legata a Casapound. Qualche giorno dopo, vengono presentate alla Camera e al Senato alcune interrogazioni sull’episodio da parte di parlamentari del Partito Democratico. In esse, si chiede al ministro della Giustizia e a quello dell’Interno che venga “assolutamente impedito che assassini senza scrupoli possano propagandare gli ideali fascisti nei confronti di giovani generazioni”. Dopodiché, a Tuti viene sospesa la licenza straordinaria, in attesa della decisione sulla revoca o meno della semilibertà.

Il 13 ottobre, infine, gli verrà confermato il regime di semilibertà con una serie di limitazioni: “Il detenuto ha l’obbligo di svolgere ogni giorno attività di collaborazione presso una Cooperativa sociale di tipo amministrativo e logistico; viene escluso, quindi, da qualsiasi coinvolgimento diretto con i giovani ospiti della casa-famiglia; al detenuto è fatto divieto di utilizzare i social media in qualsiasi forma; è tenuto a chiedere preventiva autorizzazione ai Magistrati di Sorveglianza in caso di partecipazione a eventi collettivi o manifestazione di esposizione pubblica di qualsiasi natura, anche se in caso di licenza”.

Disposizioni severe ma, direi, opportune e, nella sostanza, rispettose dei diritti e delle prerogative del condannato Tuti. Proprio per questo, la vicenda si presta a funzionare come test esemplare: sia del tasso di cultura democratica e liberale diffusa in Italia, sia della corretta applicazione di misure e provvedimenti capaci di rispettare il dettato costituzionale in materia di esecuzione della pena. Insomma, la qualità del garantismo presente nella società e nelle istituzioni si verifica più efficacemente quando la prova è più impervia, quando il soggetto da tutelare appare più estraneo e “incompatibile”, quando i diritti da proteggere sembrano un lusso superfluo e il destinatario sembra proprio non meritarli.

È proprio allora che si vede di quale stoffa sia fatto il garantismo. Troppo facile ricorrervi per difendere amici e alleati e ignorarlo quando sotto accusa sono gli avversari. A chi scrive Tuti non è simpatico, e se le sue azioni del passato risultano efferate, una sua attuale irresponsabilità non rivela una innocente spavalderia, quanto piuttosto – posso sbagliarmi – una certa protervia.

Ma questo che cosa c’entra con le valutazioni relative al suo stato di detenzione e col suo diritto costituzionale alla “rieducazione”? Nulla, assolutamente nulla. E ancora: chi – sollecitato ad assumere una posizione garantista “anche per Tuti” – si è sottratto a causa della concomitanza con l’assalto neofascita alla sede della CGIL, ha utilizzato, credo, una motivazione davvero pretestuosa. In primo luogo, perché non esiste alcun collegamento, non dico pratico, ma nemmeno lontanamente simbolico, tra i due episodi e i rispettivi attori; e, poi, perché proprio il rispetto più rigoroso delle regole e delle garanzie nei confronti di chiunque e, pertanto, anche di un reperto archeologico degli anni ‘70 potrebbe rendere ancora più intransigente la condanna nei confronti di quanti, nel 2021, credono di poter resuscitare una storia infame

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