“Seaspiracy, il mare depredato: tutto è nato quando ho ripreso la mattanza dei delfini”

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Ha 27 anni e si gode la fama inaspettata. Ma quando ha cominciato a girare le prime sequenze del documentario Seaspiracy, balzato in testa alle classifiche dei più visti su Netflix in una cinquantina di Paesi, ne aveva appena 22. Strana storia quella di Ali Tabrizi, ragazzo di origine iraniana ma d’adozione britannica, diventato una celebrità il 24 marzo quando la sua prima e attualmente unica opera è stata pubblicata dal colosso dello streaming. A suo modo scioccante, e a tratti controverso, Seaspiracy racconta quel che stiamo facendo ai nostri mari. E’ un viaggio che parte dal sud dell’Inghilterra e arriva alle coste della Liberia, passando per il Giappone, la Thailandia, Hong Kong, con un epilogo cruento nelle isole Faroe, e mettendo sotto accusa l’industria della pesca nel suo complesso. Secondo Tabrizi porterà all’estinzione della maggior parte delle specie marine entro il 2048. Ma al di là delle tesi di fondo, quel che colpisce è il fatto che l’autore abbia girato tutto durante alcuni viaggi con la moglie Lucy nel corso di cinque anni.

Seaspiracy, il documentario sulla pesca diventato virale in poche ore

“Il mio ultimo lavoro da dipendente è stato quello di lavapiatti”, racconta lui dall’Inghilterra. “Nei ritagli di tempo realizzavo video su YouTube e mi occupavo del progetto Seaspiracy. Tutto mi aspettavo meno che il documentario avrebbe avuto un’eco simile. Pensavo che sarebbe stato sommerso dai tanti contenuti disponibili su Netflix, ottenendo qualche visualizzazione e magari procurandomi uno o due inviti per dei festival di documentari. Guardavo indietro rimproverandomi di averci dedicato tutto questo tempo, convinto che dopo l’uscita avrei voltato pagina. E invece è diventato virale nel mondo in una manciata di ore”.

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Dietro a questo fenomeno globale c’è la mano fornita da Kip Andersen, regista del documentario Cowspiracy e ovviamente il supporto di Netflix. Ne hanno parlato fra gli altri il New York Times, la Bbc, The Indipendent, The Guardian. In parte perché le tesi che porta avanti sono forti, dall’altra per i dati sui quali si basa che sono stati a volte contestati. E poi per aver puntato il dito su media e diverse organizzazioni non governative legate all’ambiente, accusando entrambi di tacere davanti all’evidenza del disastro.

Le fiction diventano socialmente eco

Resta comunque il fatto che Tabrizi, quando ancora abitava nella soffitta nella casa dei genitori e per vivere si arrangiava con lavoretti di ogni tipo, per cinque anni ha portato avanti questo progetto un pezzo alla volta, iniziando con il filmare la mattanza dei delfini a Taiji in Giappone, che era stata portata già alla luce in un altro documentario intitolato The Cove, e scoprendo piano piano il volto più nascosto del settore della pesca. “Ogni nuova traccia apriva una pista diversa e un altro viaggio da programmare”, ricorda lui.

Ali Tabrizi ad Hong Kong in una scena del documentario  Ali Tabrizi finisce perfino fra la ciurma di alcuni pescherecci thailandesi, dove c’è chi lavora in regime di schiavitù, rischiando qualcosa in più che la rottura della telecamera. E sale a bordo dei vascelli della Sea Shepherd Conservation Society per arrivare a largo di Monrovia e vedere i pescatori locali su piccole canoe spinti dalla fame sempre più a largo dato che il loro mare viene regolarmente depredato dalle flotte di pescherecci internazionali.  

“Abbiamo usato delle videocamere piccole e non avendo fatto nulla in precedenza è stato complicato farmi ricevere e ottenere le interviste”, spiega il regista. “Molte, infatti, ci sono state negate. In Thailandia abbiamo corso il pericolo maggiore con quelle domande fatte agli schiavi dei pescherecci. Fummo costretti a scappare dopo aver registrato le risposte senza nemmeno il tempo di farcele tradurre. Solo in un secondo momento, mesi dopo quando mandammo il materiale a un traduttore, abbiamo capito cosa avevano risposto confermando l’atrocità di quel che sta accedendo. Lì per lì ebbi la sensazione che non ne sarebbe uscito nulla da quel dialogo, che i pescatori non avevano detto alcunché di rilevante. Uno puzzava perfino di alcolici e invece è stato quello che ha descritto in dettaglio i suoi ultimi dieci anni da incubo su un peschereccio”.

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Il fenomeno della schiavitù nella pesca è stato riscontrato in almeno 47 Paesi, perfino in Irlanda, e se ne è parlato a più riprese sulla stampa. Ma Seaspiracy lo inserisce in un mosaico complessivo, venato di cospirazionismo, che dipinge la pesca come uno dei grandi flagelli che sta distruggendo il pianeta. Non è il primo a farlo, anche premi Pulitzer del calibro di Jared Diamond hanno spesso scritto degli effetti devastanti del sovrasfruttamento dei mari, porta però alle estreme conseguenze ogni aspetto fino ad arrivare alla tesi che non può esistere nessuna forma di pesca sostenibile, nemmeno quella basata sull’allevamento.

Lo studio

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Il documentario è stato accusato di poca accuratezza per aver affermato che metà del materiale che forma le isole di rifiuti plastici nell’oceano è composto da reti da pesca, per le interviste ad alcune associazioni legate alla protezione dell’ambiente che le stesse hanno contestato e per aver calcolato la fine dell’ecosistema marino al 2046 basandosi sullo studio di Boris Worm, professore alla Dalhousie University in Canada, che poi è stato corretto dallo stesso autore con stime meno apocalittiche. “Ma cosa importa che sia il 2046, il 2056 o il 2066?”, chiede Ali Tabrizi. “Alla fine dovremmo comunque confrontarci con il disastro e stavolta i cambiamenti climatici sono solo un fattore secondario rispetto ai danni provocati dalla pesca”.  

Con un seguito sui social che è passato dalle 10 mila a mezzo milione di persone, il regista è più impegnato di prima e ovviamente pensa al prossimo progetto. Affascinato dall’incrocio fra storie personali, ambiente e ripercussioni sociali, sta considerando di indagare più in profondità quel che sta succedendo nel sud est asiatico dove le flotte dei pescherecci cinesi rappresentano la metà di tutti quelli attivi nel mondo. Aspetta che si possa riprendere a viaggiare e nel frattempo si occupa del figlio nato da pochi mesi. 

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