Settant’anni senza Nuvolari, il pilota che voleva morire

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ROMA – 70 anni fa spaccati, l’11 agosto 1953, a Mantova, usciva di scena Tazio Nuvolari (era nato a Castel d’Ario, il 16 novembre 1892 sotto il segno dello Scorpione, non aveva dunque che 61 anni), avvelenato dai gas di scarico che fra motociclette e auto aveva abbondantemente inalato sui circuiti di mezzo mondo.

Scompariva il pilota più amato di tutti i tempi per entrare nella leggenda da cui non lo avrebbe scalzato più nessuno benché le macchine fossero diventate infinitamente più potenti e lunghissima la successione dei beniamini che hanno scaldato il nostro cuore di futuri automobilisti, innamorati di eroi che sembravano sfidare la gravità e ogni genere di rischio su mezzi che oggi sarebbero considerati ingovernabili.

Mantova non è lontana da Crema la mia città, e “nuvolari” per lungo tempo è stato un modo di dire per indicare gli scavezzacollo, i ragazzotti amanti delle corse a perdifiato sui viottoli di campagna con la carta da gioco fissata con una molletta fissata al telaio della bici per imitare lo scoppiettio del motore. Nuvolari fu il nostro primo idolo, venerato per imprese compiute ancor prima che noi nascessimo, già venerato dai padri che vedevano primeggiare in lui l’Italia delle industrie e del metallo, capitalismo ardimento di un paese contadino e straccione in grado di mettere in riga le grandi potenze come la Germania, l’Inghilterra, la Francia o gli Stati Uniti, e poco ci importava che a far passerella dietro le sue vittorie ci fosse la solita folla in camicia nera o fosse costretto dall’Alfa Romeo a presentare al Duce la smagliante 6C 2300B “regalo” dei suoi operai. D’altronde ogni epoca ha le sue oligarchie smaniose di prendersi tutti i meriti, non cominciò allora, non finirà adesso.

Nel 1986, cercai di fare un film sulla vita di questo leggendario pilota e, insieme a Francesca Archibugi, scrissi un soggetto liberamente ispirato al bel libro di Aldo Santini sul “Mantovano volante”, era questo il suo soprannome, che sottoposi a Mario Gallo, un produttore gentiluomo che rimpiango ancora.

Gallo cercò subito un contatto ad Arese con l’Amministratore dell’Alfa Romeo Ettore Massacesi, in quel momento al centro delle turbolenze create dalle difficoltà in cui versava la factory milanese e dalla sua imminente cessione alla Ford. Agli “alfisti” questa soluzione non dispiaceva (in fondo era stato proprio Henry Ford a pronunciare la frase: “Quando vedo passare un’Alfa Romeo mi levo il cappello”) ma, pronubo Romano Prodi, al tempo presidente dell’Iri proprietaria del marchio, fu invece ceduta alla Fiat.

Il nocciolo del film – e chiedo venia per la brutalità delle semplificazioni tipiche del cinema – era che Nuvolari, considerato ormai troppo vecchio per correre ancora, fosse nel dopoguerra sulla soglia di un malinconico ritiro, prostrato dalla morte di due giovanissimi figlioli, Giorgio e Alberto, deceduti entrambi diciottenni. Quella disgrazia lo rimandò in pista pieno di rabbia, forse desideroso di morire in battaglia.

Massacesi ci stette molto educatamente ad ascoltare, tanto che ci sembrò di aver sfondato una porta aperta e conquistato l’agognata sponsorship del Biscione. Arrivò invece una doccia fredda: “Caro Gallo, caro Giordana – disse dopo una lunga pausa – , il momento non è buono. In autunno sarò costretto a licenziare mille operai e buttare in strada altrettante famiglie. Le pare che l’Alfa possa dare dei soldi a voi per fare un film?”. Ci congedò con grazia squisita. Se avessimo voluto visitare il Museo Storico la sua segretaria ci avrebbe accompagnato senza farci pagare il biglietto, e così fu.

 

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