Siete timidi? Ecco come uscirne

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“Il desiderio di piacere con la paura di non riuscirci”. Ecco come il medico e scrittore francese Edme-Pierre Beauchêne descriveva già nell’Ottocento uno dei “mali sociali”: la timidezza.

Può essere una caratteristica del proprio carattere, ma anche un limite con impatti negativi sulla vita sociale, soprattutto nei bambini. Nessuno nasce timido, eppure lo si può diventare già da molto piccoli come reazione a situazioni che non sono familiari, per poi diventare diffidenza o ansia in situazioni nuove, imbarazzo e reticenza.

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Per capire se esistono degli approcci positivi per superare questa fobia sociale, un gruppo di ricercatori della Curtin e Northumbria University ha preso in esame 25 studi che sperimentavano interventi su bambini tra i 6 e i 12 anni e appurato che tutti sono stati in grado di ridurre gli impatti negativi della timidezza, senza snaturare in alcun modo i caratteri più introversi.

Gli interventi più efficaci per i bambini timidi si sono rivelati essere quelli svolti in ambiente scolastico fra coetanei, che utilizzano strategie cliniche come maggiore esposizione, mediazione tra pari e psicoeducazione, per aiutare i timidi a mettersi in gioco e interagire con gli altri, “allargando” così la loro comfort zone. La meta-analisi è stata pubblicata su Plos One  e racchiude una serie di consigli utili, soprattutto per insegnanti e genitori, su come si possono aiutare i bambini a superare le “paure sociali”.

“La timidezza è comunemente vissuta dai bambini in età scolare – scrivono i ricercatori – . Chi vive questa condizione può sperimentare una serie di altre difficoltà che, sebbene non clinicamente diagnosticabili, possono avere un enorme impatto sul loro benessere, la formazione di reti sociali e il rendimento scolastico. I timidi hanno spesso voti più bassi, prestazioni peggiori nei test di sviluppo del linguaggio e maggiore difficoltà ad adattarsi in classe. Questo perché, avendo un numero limitato di amici, sono a loro volta a rischio di esclusione e di maggiore ritiro sociale per evitare di far fronte alla vittimizzazione tra pari.

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Ecco perché la timidezza viene considerata anche da una prospettiva evolutiva, proponendo un modello di interazione bambino per ambiente. Secondo questo modello, l’inibizione comportamentale e il ritiro sociale sono considerati fattori di rischio per ulteriore ansia sociale. Le interazioni tra alunni e ambiente, il bambino, i suoi genitori e i coetanei, possono promuovere o ridurre il rischio di ansia successiva”.

A scuola, “la timidezza è associata a difficoltà psicosociali e ha un impatto negativo sul rendimento e sul benessere dei bambini – spiega il professor Reinie Cordier – . Anche se esistono diverse strategie e interventi per aiutare i bambini ad affrontare la timidezza, attualmente non esisteva una revisione sistematica completa degli interventi disponibili. Abbiamo trovato 4864 studi sull’argomento e 25 di questi hanno soddisfatto i criteri di inclusione, mostrando che gli interventi intrapresi in un ambiente scolastico, sono quelli che hanno avuto un miglior effetto nel ridurre le conseguenze negative, suggerendo l’età scolare come una fase di sviluppo ideale per affrontare la timidezza”.

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Gli interventi sono stati condotti in sessioni di gruppo fuori dall’aula ma pur sempre in ambito scolastico e hanno coinvolto attività come il gioco, la modellazione e la psicoeducazione, tecniche tipicamente utilizzate in ambiente clinico.

“I nostri risultati mostrano che, quando tali metodi vengono utilizzati in un ambiente scolastico e coinvolgono coetanei, i risultati possono essere efficaci nel ridurre gli effetti negativi della timidezza. In tutti gli studi sono state riportate riduzioni di ansia, fobia sociale e comportamenti di internalizzazione. Ciò è coerente con le raccomandazioni che gli interventi siano adeguati all’età, considerino lo sviluppo sociale e utilizzino ampi programmi scolastici che si rivolgono a tutti gli studenti”.

In classe, gli insegnanti possono utilizzare concetti come la timidezza come strumento per personalizzare il modo in cui lavorano con un singolo bambino. D’esempio sono i maestri di una scuola elementare norvegese che hanno classificato i timidi nella loro classe fra introversi, ansiosi e con scarsa autostima e, in base a queste categorie, hanno adattato il loro supporto cognitivo e l’incoraggiamento nell’apprendimento attivo.

Gli insegnanti che invece hanno riferito di utilizzare strategie di apprendimento sociale come le lodi e i modelli di comportamento, nonché strategie incentrate sui pari per promuovere l’inclusione, hanno registrato miglioramenti all’interno della classe ma scarsi risultati psicosociali in contesti più ampi.

Fra le attività che hanno avuto maggior successo c’è la terapia cognitivo comportamentale di gruppo. A tutti gli studenti è stato insegnato a riconoscere i sintomi fisiologici dell’ansia, le cognizioni disadattive e il pensiero attributivo, imparando così atteggiamenti utili, dialogo interiore positivo e tecniche di rilassamento per alleviare l’ansia e modificare strategie di interazione più problematiche. Un programma di gruppo simultaneo permette anche ai genitori di prendere confidenza con le diverse strategie adatte per interagire efficacemente con i bambini timidi.

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Un altro esempio è il gioco degli incipit: ogni scenario consiste in brevi frasi scritte in cui i partecipanti devono identificarsi, per poi scrivere il loro finale positivo. Per quanto riguarda invece la psicoeducazione, le sessioni di gruppo devono essere svolte da uno psicologo clinico, che fornirà prima ai bambini, poi ai genitori, una serie di compiti da fare a casa per implementare le proprie abilità: nel caso preso in esame dello studio, ogni bambino ha esposto le proprie paure e le ha “affrontate” attraverso strategie di coping e gestione dello stress.

Al pari di quelli all’interno della scuola, “anche gli interventi in contesti naturalistici – come ad esempio in campeggio o in gita in una riserva – sono stati efficaci, tuttavia questo approccio richiede risorse economiche maggiori nonché la volontà dei coetanei di essere coinvolti in questo genere di attività”, precisano i ricercatori.

Anche i programmi basati sul coinvolgimento dell’intera scuola o di più classi, e non di piccoli gruppi, si sono mostrati i più adatti nell’innescare meccanismi di fiducia sociale che portano i timidi a uscire dal loro guscio.

“Data l’ampia gamma di approcci di intervento e gli stessi programmi di intervento, non siamo stati in grado di identificare una pratica migliore dell’altra – conclude il professor Cordier – . L’unica cosa certa è il bisogno di interventi efficaci e fattibili”.

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