Sma, cosa chiedono (e non chiedono) i pazienti

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NON di rado va “tutto bene”, non ci sono problemi o particolari criticità. Fare il terapista con pazienti affetti da atrofia muscolare spinale (Sma) significa spesso anche sentirsi rispondere così di appuntamento in appuntamento. E non perché davvero vada “tutto bene”, ma solo perché aprirsi e raccontare la malattia, gli ostacoli quotidiani da superare, è tutt’altro che semplice. “Se non facciamo noi domande specifiche, i pazienti non parlano, non si raccontano, lo sappiamo per esperienza”, confida Roberto De Sanctis, terapista della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva, a fianco dei pazienti anche una volta diventati adulti. Roberto si occupa di malattie neuromuscolari da sempre, e oggi, presso il centro Nemo del Policlinico Gemelli di Roma, gran parte del suo lavoro è proprio con persone con Sma e i loro caregiver.

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Vincere la dipendenza dal caregiver, dal bagno alla cucina

Negli anni ha imparato che le difficoltà da affrontare durante la terapia devono essere indagate. “Con i pazienti c’è bisogno di scavare”, ammette senza giri di parole. Per cercare di capire dove e come intervenire: “La maggior parte dei problemi sono quelli che riguardano le relazioni, la sfera sociale – racconta – in generale limitati al rapporto con il caregiver, a cui sono legati in alcuni casi quasi in modo simbiotico e dipendente. Ma sono aspetti sociali che anche come terapisti possiamo affrontare, cercando di ridare autonomia ai pazienti”. E, così Roberto racconta, per esempio, che uno degli aspetti più scomodi da affrontare, una delle sfide più problematiche che gli adulti con Sma riferiscono – soprattutto dopo aver scavato – è quella di andare in bagno da soli. “Se non chiediamo apertamente se andare in bagno è un problema, difficilmente i pazienti ce lo riportano, rimanendo così dipendenti dalle figure genitoriali e dai caregiver, e ovviamente tutto questo ha un enorme impatto sulle relazioni con le altre persone”. L’aiuto del terapista in questi casi è quello di fornire gli strumenti – sotto forma sia di strategie che di ausili – che permettano ai pazienti di cambiare la loro quotidianità, e di conseguenza di aumentare la loro autonomia e migliorare la qualità di vita. Al bagno, così come in cucina, riprende il fisioterapista: “Basti pensare a quello che permette di fare una carrozzina verticalizzante: se posso prendere cose nei pensili in cucina da solo posso anche cucinare da solo”.

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Il paradosso della riabilitazione sottovalutata

Negli ultimi anni, però, anche dare gli strumenti è diventato difficile. Un effetto collaterale dell’avvento delle terapie contro la Sma, confida De Sanctis: “Nel momento in cui, in passato, oltre le ortesi e gli ausili, non c’era nulla per questi pazienti, grandi e piccoli, la riabilitazione era il nucleo centrale della terapia”, ricorda: “Oggi abbiamo ben tre farmaci, al cui arrivo ho partecipato con orgoglio prendendo parte alle sperimentazione cliniche, che hanno cambiato le aspettative sulla malattia e le sue strategie di gestione”. In alcuni casi però, paradossalmente, rendendo più difficile la riabilitazione. “L’esempio classico è quello della carrozzina: in passato era visto come il momento in cui i bambini si staccavano dai genitori, acquisivano una loro autonomia: oggi invece proporre questo ausilio, ove necessario, è diventato difficilissimo. Non riusciamo quasi a presentare questa sorta di libertà psicologica”. E infatti, riconosce De Sanctis, i farmaci hanno cambiato la storia della malattia, non rappresentano ancora una cura definitiva, ma hanno generato aspettative altissime, sia negli adulti che nei genitori dei bambini più piccoli. Con l’effetto di aver diminuito l’interesse per gli aspetti riabilitativi: “Ci capita così oggi di vedere anche pazienti che non vedevamo da tre o quattro anni” – riprende il fisioterapista – ma è fondamentale invece far passare il messaggio che non si deve perdere la fiducia negli aspetti riabilitativi della terapia”.

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Farmaci e riabilitazione, insieme

Il senso del discorso di De Sanctis non è quello di sminuire il ruolo dei farmaci, tutt’altro. “Quando c’è già stata neurodegenerazione è difficile recuperare quanto si è perso. Questo significa per esempio, che se un paziente è già non deambulante, difficilmente tornerà a deambulare con i farmaci – precisa – e quello che cerchiamo di far capire è che, grazie all’azione combinata di terapie e farmaci, è possibile mirare a mantenere le funzioni che non si sono perse, soprattutto per gli arti superiori. In questo senso il ‘non perdere’ va visto come un miglioramento, come un’aspettativa reale. I farmaci aiutano, ma non è detto che riescano a mantenere la funzione: una scoliosi senza bustino va avanti, non regredisce. Se non aiuto, con la terapia riabilitativa, a sviluppare nuove funzioni e a mantenerle, il beneficio del farmaco viene meno”.

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Di questo e molto altro si parlerà oggi pomeriggio, nel terzo appuntamento di quest’anno con #SMAspace, il ciclo di incontri virtuali (qui per iscriversi) per stimolare il dialogo tra clinici, persone con Sma e caregiver. A rispondere, insieme a Roberto De Sanctis, saranno Elisabetta Roma, pneumologa del Centro Nemo Milano, e Chiara Maggaddino, ragazza affetta da SMA. #SMAspace è un progetto di OMaR – Osservatorio Malattie Rare & FamiglieSMA, realizzato con il contributo non condizionato di Roche Italia.

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