Stipendi e Covid, un dipendente medio ci mette 36 anni per guadagnare quanto il capo

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MILANO – A volte, uno vale 36. Le figure apicali nell’industria e nei servizi guadagnano in un anno quanto un lavoratore “medio” impiega 36 anni a mettere insieme. Anche nel 2020, anno in cui i compensi dei vertici sono stati comunque più contenuti rispetto al passato: complessivamente, il taglio della remunerazione è stato pari a 21 milioni, il 17% in meno rispetto ai valori pre-pandemia.

(fotogramma)

La fotografia è stata scattata dall’Ufficio studi di Mediobanca, relativamente alle 27 società quotate al Ftse Mib e relative al settore industriale e dei servizi. Probabilmente colpa del Covid, per i super-big degli stipendi la parte fissa è salita di peso percentuale nella remunerazione complessiva (pur restando meno importante della voce variabile) ma le due voci complessivamente sono abbastanza per cui un dipendente medio avrebbe dovuto cominciare a lavorare nel 1984 per raggiungere nel 2020 il gruzzoletto portato a casa in dodici mesi da un suo apicale. 

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La crisi non ha morso allo stesso modo su tutti gli aspetti. Per esempio il fatturato complessivo dei 27 gruppi presi in esame da Mediobanca nel 2020 è sceso in media del 18,6%, mentre per il solo settore manifatturiero il giro d’affari è stato il 14,3% in meno, il peggior calo da trenta anni a questa parte, mentre i margini i valori sono ritornati a 11 anni fa (e le previsioni per il ritorno ai livelli pre-crisi sono spostate al 2022). Tuttavia, è proprio questo il settore che ha dimostrato la reazione migliore nella seconda parte del 2020.

Complessivamente, tra industria e servizi sono stati persi 14 miliardi di utili netti e i dividendi persi sono stati 4 miliardi, ma in compenso la liquidità è cresciuta del 34,5%; in Borsa questo plotoncino di azioni valeva al fine dicembre scorso 386 miliardi, l’1,4% in più dell’anno precedente.

La fotografia di Mediobanca regala anche alcune certezze: essere donna significa quasi sempre avere meno potere (l’amministratore delegato è una rarissima eccezione in tutta Piazza Affari); in compenso nell’industria e nei servizi la presenza femminile tra i presidenti è pari al 21,1% dei casi. Che guadagnano meno dei loro colleghi uomini: in media, 321,3 mila euro l’anno, contro i 375,4 mila degli uomini. Non a caso, non c’è nemmeno una donna nella superclassifica dei compensi superiori ai 3 milioni l’anno (comprensivi anche dei compensi in azioni). 

Ma anche tra i super-stipendi le diminuzioni della remunerazione (a volte volontaria) sono state notevoli e in termini percentuali hanno dato una sforbiciata sensibile a a quanto portato a casa. Sulla voce incide, come per la tabella precedente, la valutazione a fair value dei compensi in azioni.

Occorre dire che proprio la Borsa sta regalando buone soddisfazioni agli azionisti in questa prima parte dell’anno. Da fine dicembre al 23 aprile scorso, infatti, la capitalizzazione del settore manifatturiero del Ftse Mib è salita del 17,7% (meglio quella privata, più 20%) praticamente in linea con il settore petrolifero (Eni) salito del 17,8%. Segno meno invece per i servizi (-7%).

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