Trump, Byoblu e il (contestato) diritto dei social di espellere chi sbaglia

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Qualche anno fa il presidente degli Stati Uniti bloccava su Twitter gli utenti che lo criticavano. E visto che era un presidente che usava moltissimo Twitter per fare politica, qualcuno ha ritenuto che non fosse giusto giacché, impedendo a questi cittadini di vedere i suoi tweet, di fatto li discriminava; e così nel 2017 ha fatto ricorso. Il caso è arrivato fino alla Corte Suprema. La decisione era molto attesa ed è stata pubblicata il giorno di Pasquetta; e visto che nel frattempo il presidente è cambiato, la Corte ha deciso che non c’era nulla da decidere. Insomma, non si è pronunciata sul diritto di chi governa di bloccare dei cittadini (molesti) su un determinato social network. Ma uno dei giudici, Clarence Thomas, nominato da George H. W. Bush nel 1991, ha ritenuto di pubblicare ugualmente il suo pensiero in 12 pagine che hanno totalmente ribaltato il dibattito. Il punto non è, secondo Thomas, se un politico può bloccare o meno un cittadino, ma se Twitter può espellere un politico, come accaduto nel frattempo a Trump, il presidente di cui sopra. 

La faccio breve, per Clarence Thomas no: quando un social network raggiunge “certe dimensioni” non può rifiutare di offrire il suo servizio a nessuno. Neanche se qualcuno lo ha usato per fomentare una insurrezione contro il Parlamento, viene da dire. In pratica, secondo questa visione, le piattaforme tecnologiche sarebbero come le compagnie telefoniche (e quindi vanno regolamentate di conseguenza). In pratica, non devono interferire con la libertà di espressione, che negli Usa è sancita dal Primo Emendamento. Questa posizione ha riacceso un dibattito mai sopito con la destra schierata a favore di Thomas e la Silicon Valley contraria. Epperò non è una questione americana ma ci riguarda tutti: qualche giorno fa YouTube in Italia ha cancellato Byoblu, un popolare canale che oltre 500 mila iscritti. Sparito. L’accusa: aver violato le norme sulle notizie false relative alla pandemia. Punto. Nessun altro dettaglio: insistendo, si scopriva che la decisione era stata presa perché il canale avrebbe violato tre volte in 90 giorni “le norme sulla disinformazione in ambito medico relativamente al COVID-19 introdotte, nella primavera del 2020, in accordo con gli impegni presi con le istituzioni dell’UE per contrastare la disinformazione correlata al coronavirus”. Per quali post? Per quali video? Non si sa. 

La cosa ovviamente ha fatto discutere: come negli Stati Uniti, la destra si è schierata in difesa del canale, ma anche un esponente del collegio del Garante della Privacy, non di destra, ha parlato di ferita per la democrazia. E’ così? I social non sono più “padroni a casa loro”? Sono davvero come le compagnie telefoniche? Una sorta di servizio pubblico? Oppure hanno il diritto e anche il dovere di intervenire per far rispettare i “termini di servizio” che tutti firmiamo e accettiamo (distrattamente) quando ci iscriviamo ad una piattaforma? E ancora: se non devono decidere i social quello che accade sui social, chi deve farlo? L’autorità giudiziaria? Negli Stati Uniti nel caso citato all’inizio la decisione è arrivata quattro anni dopo i fatti contestati, quando non serviva più decidere. 

Se ne parlerà sempre più spesso: speriamo, perché la democrazia nell’era digitale, di fatto appena iniziata, poggia fortemente su queste piattaforme dove ci incontriamo, ci informiamo, ci organizziamo. Il modo in cui funzionano o non funzionano può far crescere una comunità o mandarla in pezzi. Qualche settimana uno dei più brillanti e citati attivisti della rete, Eli Pariser, quello della bolla, la filter bubble, nella quale ciascuno di noi vive in rete, ha lanciato una suggestione interessante: come nel passato le comunità si sono formate in grandi spazi pubblici, come piazze, librerie, parchi, aperti a tutti ma con delle regole; così adesso dobbiamo far nascere e crescere spazi pubblici digitali comuni. 

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