Tumore al seno: come scoprirlo in anticipo

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Oltre 7 mila donne in Italia stanno partecipando a uno studio che vuole capire se e come cambiare lo screening per il tumore al seno, per personalizzarlo. Non più una “taglia unica” ma uno screening “cucito su misura”, con esami diversi a intervalli di tempo diversi, decisi caso per caso. Lo studio – che vi raccontiamo nella nuova newsletter di Salute Seno – si chiama My PeBS (acronimo di My Personal Breast Screening), coinvolge 7 paesi ed è finanziato con 12,5 milioni di euro dal programma Horizon 2020: fino al 2025 recluterà in tutto 85 mila donne tra i 40 e i 70 anni, di cui 30 mila nel nostro Paese, presso 6 centri (in Emilia Romagna, Piemonte e Toscana) coordinati dall’Azienda Sanitaria Locale di Reggio Emilia.

Lo screening, oggi

L’obiettivo dello screening è di individuare il cancro al seno il più precocemente possibile, per ridurre soprattutto il numero di decessi, ma anche la gravità della malattia e, di conseguenza, i trattamenti necessari. Tutti i programmi utilizzano da sempre una stessa strategia “universale” basata sull’età, in cui le donne tra i 50 e i 69 anni sono invitate per una mammografia ogni 2 o 3 anni. “È stato osservato che lo screening porta a una riduzione della mortalità per cancro al seno che varia tra il 20% e il 40% circa, a seconda degli studi considerati”, spiega Silvia Deandrea, Presidente del Gruppo Nazionale Screening Mammografico (Gisma): “Da tempo, però, si stanno conducendo sperimentazioni per capire come aumentarne la sensibilità e l’efficacia”.

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Lo studio My PeBS

Lo studio My PeBS – presentato anche al congresso Gisma che si è tenuto lo scorso dicembre – è uno di questi, ed è tra i più grandi. Le partecipanti vengono divise in modo casuale in due gruppi: metà di loro continuerà ad essere chiamata per una normale mammografia allo scadere dei due anni canonici, come prevede il programma di screening attuale; per l’altra metà, invece, saranno innanzitutto analizzati i fattori di rischio.

Accanto alle variabili classiche – come età, storia riproduttiva e ormonale (menopausa, età al menarca, età al primo figlio), storia familiare, precedenti biopsie al seno e densità del seno (ossia la percentuale di massa ghiandolare rispetto alla massa grassa) – verrà eseguita anche un’analisi genomica di oltre 300 mutazioni genetiche (chiamate SNPs, varianti del Dna di una singola lettera) associate al rischio di cancro al seno, grazie a dei semplici campioni di saliva.

Come spiega sul sito dell’Osservatorio Nazionale Screening Paolo Giorgi Rossi, direttore del Servizio Interaziendale di Epidemiologia della Ausl di Reggio Emilia, “ogni variante è associata a un cambiamento minimo della probabilità di avere un cancro al seno e dunque porta di per sé un’informazione insignificante. Ma, combinando insieme oltre 300 SNP, si ottiene un punteggio che permette di discriminare in modo abbastanza accurato le donne che hanno un rischio molto basso dalle donne che hanno un rischio più alto”.

In base al punteggio complessivo, vengono quindi stabiliti 4 livelli di rischio, a cui corrispondono a protocolli di screening diversi:

– le donne nel gruppo a basso rischio (meno dell’1% di rischio di sviluppare il tumore a 5 anni) sono invitate a ripetere la mammografia dopo 4 anni;

– le donne a rischio medio sono invitate a partecipare a una mammografia ogni 2 anni, come nei programmi standard, ma con l’aggiunta di un’ecografia nel caso di seno molto denso;

– le donne con un rischio superiore alla media (ma inferiore al 6%) vengono invitate ogni anno e anche loro ricevono un’ecografia in caso di seno molto denso;

– le donne con un rischio superiore al 6% effettuano una risonanza magnetica e una mammografia ogni anno fino ai 60 anni di età, e in seguito la sola mammografia annuale (un programma simile a quello previsto per le donne con mutazione nei geni BRCA).

I dati ci diranno se questo tipo di approccio personalizzato sia migliore di quello standard nel ridurre l’incidenza dei tumori scoperti già in stadio II o più avanzato, e se sia anche costo-efficace, e quindi sostenibile per il sistema sanitario nazionale.

Mammografia 3D ed estensione dell’età: ancora poco applicate

Negli ultimi anni qualche passo avanti è stato fatto. In Emilia Romagna, per esempio, chi partecipa allo screening mammografico viene anche indagato per identificare l’eventuale presenza di mutazioni BRCA e, in tal caso, accede al servizio di sorveglianza attiva. In Veneto, uno studio italiano – il Verona Pilot Study – sta dimostrando che la tomosintesi (la cosiddetta mammografia 3D) è un efficace esame di screening, in grado di individuare meglio della mammografia digitale le lesioni più piccole.

C’è inoltre l’indicazione – europea e italiana – di estendere l’invito ad altre fasce di popolazione, a partire dai 45 anni e fino a 74. Nel 2019, però, solo tre Regioni lo hanno fatto, con uno sforzo ingente. “È imminente una raccomandazione delle linee guida italiane che riguarderà le donne tra i 45 e i 49 anni per indicare il migliore intervallo tra test in questa fascia di età (annuale o biennale), ed è stato istituito un gruppo di esperti che deciderà se introdurre la tomosintesi come esame di primo livello”, continua Deandrea: “Al momento, comunque, né l’estensione delle fasce di età né la tomosintesi sono nei LEA (i Livelli essenziali di assistenza, garantiti dal sistema sanitario, ndr), quindi sta alle Regioni o ai singoli centri trovare risorse per sostenerli”.

Si cercano anche nuovi modi per coinvolgere le persone che oggi non aderiscono all’invito e per migliorare i servizi affinché raggiungano la popolazione ancora scoperta. Basti pensare che, sempre nel 2019 (in epoca pre-Covid), i tumori scoperti grazie allo screening sono stati 8.300, cioè solo il 16% circa di tutti i tumori diagnosticati in ogni fascia di età (53 mila).

Sempre in Veneto, per esempio, si sta testando un sistema di “inviti aperti”, gestiti in modo molto efficiente e attraverso piattaforma online, dove le donne possono cambiare in autonomia l’appuntamento: un approccio che sta riducendo anche i tempi morti per i tecnici, in cui il mammografo non viene utilizzato. “Dobbiamo riuscire a intercettare quel 30-50%, a seconda delle Regioni, che non risponde agli inviti: che proprio non fa la mammografia o che la fa al di fuori dei programmi, lavorando sui medici di base e sulle donne – dice ancora Deandrea – facendo capire il valore dello screening, che non è offerta di serie B, ma di serie A, in cui ogni aspetto viene monitorato e si garantisce la trasparenza. Lo screening vive la crisi di non essere la novità: va rivisitato e riscoperto. E, sicuramente, bisogna cercare di migliorare l’accuratezza del test, anche grazie all’intelligenza artificiale, su cui si sta puntando molto in Europa”.

Perché e cosa cambiare

Certo, prima di cambiare ci deve essere la prova provata che ogni cambiamento porti un reale vantaggio, a maggior ragione dal momento che parliamo di prestazioni erogate con fondi pubblici. Ma c’è chi pensa che uno scatto in avanti non sia più rimandabile. “C’è ancora una larga quota di donne che non accetta l’invito, semplicemente perché non crede nello screening: non viene sufficientemente spiegato loro quale sia il vantaggio di partecipare, trovano in molte ASL apparecchiature con oltre 10 anni di vita , come ha mostrato il recente censimento dell’Agenzia Regionale per i servizi sanitari, secondo cui il 20% è da rottamare”, sottolinea Adriana Bonifacino, oncologa e presidente dell’associazione IncontraDonna Onlus: “Inoltre, da quando i programmi sono partiti, il mondo è molto cambiato. Per esempio: le donne oggi si spostano molto più di un tempo per lavoro o altre esigenze: cambiano ASL e Regione, a volte nazione. Chi aderisce allo screening non riceve una documentazione da portare con sé”. Si potrebbe obiettare che questo non va nella stessa direzione di una digitalizzazione della sanità, con il fascicolo sanitario che dovrebbe essere sempre accessibile online. “Ma non ovunque è così, purtroppo”, dice Bonifacino: “La documentazione non viaggia in rete, perché questa rete non c’è ovunque. Se una persona cambia sede di residenza non ha documentazione confrontabile, o la ottiene superando molte difficoltà di ordine burocratico”.

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IncontraDonna ha elaborato una proposta, al momento al vaglio del Ministero della Salute: “Lo screening è un programma di salute pro-attivo, ma pensiamo che lo debba essere ancora di più e andare incontro alle diverse esigenze delle donne. Sarebbe utile, per esempio, disporre di unità mobili per raggiungere i piccoli centri. La signora che vive in un piccolo paese o borgo ha il diritto di essere raggiunta dal primo anello della prevenzione, cioè lo screening. Parlo di medicina di prossimità: gli investimenti del prossimo PNRR sono finalizzati prevalentemente alla prevenzione e al sostegno del territorio e al legame delle case della salute con gli ospedali”.

Ancora, i fattori di rischio e l’incidenza sono cambiati. Basti pensare che molte più donne presentano un seno denso rispetto al passato, che è cambiata la dieta e che è aumentato il ricorso alla Pma: “Non tutti hanno la fortuna di abitare in Veneto o in Emilia Romagna, dove esistono programmi sperimentali – conclude l’oncologa – Lo stesso dicasi per le donne ad alto rischio per via della familiarità. l’Ospedale Sant’Andrea di Roma, in cui lavoro, prevede un percorso solo perché ci sono le persone che lo mantengono in vita: non è messo a sistema e non è strutturale. Per questo credo che serva la centralità dello Stato”. 

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