Tumore al seno, un prelievo di sangue per capire se il farmaco funziona

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Si apre il mese dedicato alla consapevolezza sul tumore al seno: alla diagnosi precoce e alla prevenzione, soprattutto. La prima per ridurre la mortalità, la seconda per ridurre l’incidenza di questa malattia. Ci saranno tantissime iniziative e monumenti colorati per ricordarci quanto entrambe siano importanti. Da sempre, il simbolo di questo mese è il nastro rosa. Non a tutte le donne piace, non tutti si riconoscono o condividono questa rappresentazione, per diversi motivi. Anche per questo, però, da qualche anno al nastro manca un pezzo: è la strada che la ricerca deve ancora percorrere. Perché questa malattia, nonostante tutti i progressi e l’alta sopravvivenza raggiunta a 5 anni dalla diagnosi (passata dall’81% all’87% in due decenni), resta la prima causa di morte oncologica nella popolazione femminile. Nella newsletter di Salute Seno (qui il link per iscriversi) di questa settimana partiamo da quel pezzo mancante del nastro, per il quale servono sia la consapevolezza, sia i fondi.

Nel laboratorio di Prato

C’è un laboratorio, a Prato, che fa ricerca sul tumore al seno. Come tanti altri, certo, ma lo hanno tirato su proprio dentro al dipartimento di Oncologia: ci lavora un gruppo di medici che passano dalle pazienti a microscopi, quasi senza alzarsi dalla sedia. E in questo laboratorio è stata scoperta una proteina che può indicare, nel giro di appena 15-30 giorni, se una terapia per le pazienti con cancro al seno avanzato funzionerà o meno. Di più: permette di prevedere se la risposta sarà “buonissima”, con un controllo della malattia di tanti anni; buona (nella media), con un controllo di diversi anni; o scarsa. Identificando così le pazienti che possono essere selezionate per controlli più frequenti e attenti, e che necessitano presto di altri trattamenti.

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Il tumore avanzato e la terapia

Cominciamo dall’inizio. La ricerca di cui parliamo riguarda le pazienti con il tumore al seno metastatico del tipo più comune, quello con i recettori ormonali. Il trattamento, oggi, si basa su tre farmaci relativamente nuovi, detti inibitori di CDK4/6 (palbociclib, ribociclib o abemaciclib), in combinazione con la terapia ormonale tradizionale. Queste associazioni permettono di controllare la malattia anche per lunghi periodi di tempo nella maggior parte dei casi. Circa il 10-15% delle pazienti, tuttavia, non riceve alcun beneficio e, al momento, gli oncologi non hanno a disposizione alcuno strumento per identificarle in anticipo.

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“Sono arrivato a Prato nel 2011 dopo un periodo negli Usa e qui, grazie alla fiducia e alla visione di Angelo Di Leo, un grande oncologo e ricercatore italiano da poco scomparso, abbiamo realizzato questa struttura con l’obiettivo di avvicinare il più possibile la ricerca alle pazienti, senza gradi di separazione”, racconta Luca Malorni, che dirige il laboratorio. E che lavora insieme a sua moglie, patologa e con competenze nella ricerca pre-clinica e insieme ad altri giovani ricercatori. “Abbiamo unito le forze – continua – e ci siamo concentrati anche sulla ricerca di biomarcatori che potessero avere una ricaduta immediata”.

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La proteina che rivela la risposta alla terapia

Tra tutti i biomarcatori presi in esame ne hanno trovato uno che si chiama Timidina Chinasi 1: un enzima prodotto da tutte le cellule, ma soprattutto da quelle tumorali, e che si misura facendo un semplice prelievo di sangue. Quanto più ce n’è, tanto più il tumore sta proliferando. “Quando abbiamo scoperto che gli inibitori di CDK4/6 frenano la sintesi di questa proteina, abbiamo chiuso il cerchio: voleva dire che la Timidina Chinasi 1 ci può indicare se questi farmaci stanno funzionando nella singola paziente”, spiega l’oncologo.

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Il gruppo di Malorni ha osservato che le variazioni della proteina dopo 15 giorni di trattamento è un segnale importantissimo, con un valore prognostico molto forte. I primi dati mostrano, infatti, che le pazienti in cui si azzera hanno di norma una prognosi eccellente e possono continuare la terapia con inibitori di CDK4/6 per molti anni prima che vi sia una progressione della malattia. Viceversa, le pazienti in cui il valore aumenta invece che diminuire sono quelle in cui, di norma, si osserva una progressione entro sei mesi.

Ma non è solo il 15esimo giorno a dare delle indicazioni. Il trattamento con inibitori di CDK4/6 prevede tre settimane di terapia e una settimana di pausa: “Durante questa settimana di pausa succedono cose diverse da paziente a paziente”, continua Malorni: “In circa il 40% dei casi la Timidina Chinasi 1 resta bassa, mentre nel 60% ‘rimbalza’ e torna alta. Ci siamo chiesti se questa differenza avesse un significato clinico e la risposta è sì. Le pazienti in cui rimane soppressa sono quelle per cui la terapia ha una grandissima efficacia, mentre le altre rientrano nel gruppo ‘intermedio’, in cui la risposta ha una durata di circa due anni”.

L’altro studio

Sono dati solidi, ma che devono essere ulteriormente confermati prima che il nuovo biomarcatore possa essere utilizzato nella pratica clinica. E proprio per questo è partito un altro studio che arruolerà 150 pazienti, finanziato da Fondazione Airc (che come ogni ottobre promuove la Campagna Nastro Rosa insieme ad Estée Lauder Companies). Il progetto durerà in tutto 5 anni e coinvolge sette centri italiani. Oltre alla Timidina Chinasi 1 verranno fatte analisi genetiche per capire se ci sono correlazioni tra alcune caratteristiche del tumore e il comportamento della proteina. Lo studio, quindi, oltre a capire chi risponde meglio e chi peggio alle cure, ha anche l’obiettivo di cominciare a capire perché questo accade. “Avere uno strumento che permette rapidamente di capire quando il farmaco funziona e quando no è importante per poter adattare il percorso di monitoraggio e cura – conclude Malorni – ma ancora di più lo è capire la biologia che sta dietro a queste differenze”.

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