Un italiano da Stella Rossa: Diego Falcinelli

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Diego Falcinelli, primo calciatore italiano nella storia della Stella Rossa squadra simbolo della Serbia, è pronto a sfidare il Milan?

“Dopo un paio di partite fuori per un lieve infortunio muscolare, sabato scorso ho saltato il campionato per precauzione. Ma questa è una sfida da non perdere, qui l’aspetta tutto il Paese”.

Il club aveva scritto al governo perché facesse entrare almeno 15 mila spettatori.

“L’Uefa ha dato il permesso, ma il governo è prudente perché teme il contagio allo stadio. La Serbia è prima al mondo per la campagna delle vaccinazioni. Finora ci sono state molte meno restrizioni che in Italia. Il fatto è che la popolazione è un po’ più responsabile, mi dispiace dirlo ma è così. In Italia appena si allenta l’attenzione sembra una festa, qui no”.

Ma è davvero così essenziale il pubblico al Marakana, anche se al 30%? 

“Si sente proprio tanto, chi l’ha visto pieno me lo dice sempre. Io ero già venuto da avversario col Sassuolo in Europa League: l’effetto era stupendo. Al di là della passione evidente, l’atmosfera non è paragonabile a nessun altro stadio. Non è un caso che il Liverpool, quando ha vinto la penultima Champions, lì si sia beccato un 2-0”.

Col Milan, in più, c’è la storia della rivincita per la famosa nebbia di Belgrado.

“Me ne parlano dal sorteggio di dicembre. Sono passati quasi 33 anni e io non ero ancora nato. Ma non hanno dimenticato ancora quella sera leggendaria della partita interrotta sull’1-0 per la Stella Rossa, in 11 contro 10. Si sentono ancora defraudati, perché avevano una squadra formidabile, che poi avrebbe vinto nel 1991 a Bari la Coppa Campioni, con Savicevic, Prosinecki, Jugovic, Mihajlovic, Sabanadzovic. E nell’88 c’era anche Stojkovic, una delle leggende del club”.

Non sarà solo questione di nostalgia per i bei tempi?

“Ma no. E’ voglia di battere una grande del calcio mondiale come il Milan, di provare a fare la sorpresa. La nostra è squadra costruita per vincere, non solo nel campionato serbo. Da un anno e mezzo si è formato un gruppo sempre più solido, per rimanere in pianta stabile nell’Europa che conta. Lo dimostra anche il mercato, con innesti di giocatori europei”.

Lei a settembre, adesso un altro italiano, Filippo Falco, che potrebbe debuttare dalla panchina. Ma le destinazioni all’estero, di solito, sono altre.

“Luogo comune. Pippo l’avevo incrociato solo da avversario, adesso siamo sempre insieme e sono certo che si troverà benissimo. Io ho dovuto decidere in fretta e furia. Quando il mio procuratore Bastianelli mi ha chiamato per prospettarmi la possibilità, qualche tormento l’ho avuto. Ma c’erano i preliminari di Champions e mi voleva il Mister”.

Stankovic, uno degli eroi del Triplete dell’Inter.

“Conosce alla perfezione il calcio italiano, mi ha detto che mi conosceva benissimo e che mi aveva consigliato Mihajlovic, che è suo amico fraterno e che mi ha allenato al Bologna. In più il Mister si ricordava dei miei due gol segnati all’Inter col Crotone. Lui resta un grande tifoso dell’Inter”.

La presentazione di Diego Falcinelli, nello spot con la maschera della serie tv La Casa di carta, è un cult sul web.

“L’ho scoperta sui social, all’inizio non ne sapevo niente. Ovviamente era un abile montaggio, però spiega chiaramente le potenzialità di questo club, che ha grandissimi progetti di espansione e idee nuove. D’altronde è una squadra storica in Europa”.

Un attaccante italiano a Belgrado: non è strano?

“Sono il primo in assoluto nella storia della Stella Rossa. All’inizio ero anche un po’ preoccupato per la mia compagna e per la mia bambina, che ha 6 anni. Ma ci abbiamo messo pochissimo ad ambientarci. Ora sono molto soddisfatto della scelta: Belgrado è una città bellissima e in continuo sviluppo. E’ una capitale. E la gente ti prende il cuore, per quanto è genuina e disponibile. Io non parlavo bene l’inglese: si sono fatti subito in quattro per aiutarmi e non perché in campo facevo gol”.

L’idea del mondo balcanico, figlio delle guerre, è un po’ diversa.

“Ma è un’idea sbagliata: quel tipo di storia non lo avverti. Certo, le persone hanno sofferto e lottato e tengono alla loro identità. Ma io sto imparando tanto, ogni giorno: qui nessuno ha pregiudizi verso lo straniero, è la loro mentalità. Ed è molto bella”.

Il livello del calcio balcanico è basso.

“Altro luogo comune. Certo, la Serie A italiana è migliore tecnicamente e tatticamente, però anche qui ci sono squadre buone, come il Partizan e il Vojvodina. La nostra lo è di sicuro: in Italia non vincerebbe lo scudetto, ma lotterebbe per l’Europa League. Entra spesso in Champions e ha passato il girone di Europa League. Quando hai un allenatore che ti tiene concentrato sempre, è difficile sbagliare approccio alle partite”.

Lei è il prototipo del calciatore che ha fatto tutta la gavetta.

“Ho giocato in tutte le categorie, dalle serie D in su. Ne sono orgoglioso. Non guardo al passato, ma so che la mia storia, il percorso che ho fatto per affermarmi, mi ha aiutato a non sentirmi chissà chi soltanto perché faccio il calciatore. Io vivo una vita normale, come tutte le persone normali: famiglia e lavoro. E questo per me è tutto”.

Un minimo di predestinazione c’era: lei è umbro nato a Marsciano, il paese di Antognoni.

“L’ho conosciuto quando ho giocato alla Fiorentina. Sono cresciuto a Ponte San Giovanni, a Perugia, e nel Perugia di Gaucci giocavo prima del fallimento. Sono tornato al Pontevecchio, la squadra di Ponte Sam Giovanni. Poi ho fatto un po’ il giro d’Italia, Sassuolo, Foligno, Juve Stabia, Lanciano, Crotone, Fiorentina, Bologna. Anche se la squadra del cuore resta il Perugia: da professionista ci ho giocato due volte. E l’ultima volta è stata il mio più grande dolore calcistico”.

La retrocessione in C della scorsa stagione?

“La B nella mia città l’avevo voluta io, dopo il Bologna. E’ andata male, con tanti rimpianti. Il primo risultato che chiedo sempre, se non riesco a vedere la partita, è quello del Perugia. Perugia è il posto dove tornerò a vivere”.

Nel suo curriculum c’è una classica sliding door: lo scudetto con gli Allievi dell’Inter e la mancata conferma, da cui tutto è partito.

“In quella squadra c’erano Destro, Santon, Obi, Caldirola. Da lì tornai al Pontevecchio, giocai bene in D a 16 anni e cominciò la scalata. Ma non riesco a considerarla un’occasione persa, a 15 anni studiavo e non pensavo che avrei fatto il calciatore di professione. I miei genitori lavoravano alle poste e mio papà era appassionatissimo di calcio, ma io da piccolo sognavo di fare il poliziotto. Sa, il fascino della divisa”.

E’ difficile togliersi l’etichetta di calciatore di provincia, come è capitato anche a Caputo, che poi è finito in Nazionale?

“Sì, lo è. Ma io sono fiero della carriera che ho fatto: per arrivare in cima ne ho dovuta fare di strada e quando ci arrivi è anche più bello. Non rinnego proprio nulla. Di Crotone, che è stato il passaggio decisivo, ho un ricordo fantastico: della città e della gente soprattutto. Con tante persone, che non c’entravano col calcio, ho legato così tanto che ci sono andato in vacanza”.

E’ la chimica della provincia?

“Quello è stato il classico anno perfetto: lo staff, la società, l’allenatore Nicola, i compagni, la cavalcata della salvezza storica con i miei 13 gol, la squadra che giocava per me. Io non sono il tipico attaccante da area: non avere compiti precisi è stata la chiave”.  

Sullo slancio era arrivato anche a Coverciano nel 2017, per lo stage di Ventura.

“Altro momento bellissimo, un’ emozione unica. Indossare la maglia della Nazionale? Mai e poi mai l’avrei pensato. Era un sogno puro”.

Il risveglio a Firenze e Bologna?

“Ho sbagliato anche delle scelte, come andare alla Fiorentina da vice di Simeone. A posteriori non lo rifarei. Ma poi tutto ha un senso, se adesso sono qui”.

A sfidare il Milan da “straniero”.

“La Serie A la seguo bene, ogni tre giorni siamo in ritiro e lo svago è quello. Il campionato si è livellato molto, lo scudetto mi sembra accessibile a tutti. Credo che per il Milan la sconfitta con lo Spezia non sia stata indolore: in due settimane si gioca l’Europa League e il primo posto: oltre a noi deve affrontare Inter e Roma. In pratica in 4 partite si gioca il futuro. Anche se certe squadre sono abituate alle pressioni. dovranno gestire le forze”.

Senza Ibrahimovic?

“Lui è già nella storia. Il ritmo è un po’ più basso e secondo me può giocare per altri due o tre anni,  in questa Serie A. E’ stratosferico, può ancora fare la differenza. Se al Milan togli Ibra e Donnarumma, non credo che possa lottare per lo scudetto”.

Falcinelli, come la chiamano a Belgrado?

“Dieguito. Ma è solo un diminutivo, eh”.

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