Una trappola degli scienziati per catturare la CO2

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Tagliare le emissioni potrebbe non bastare. Anche se le nazioni mantenessero rigorosamente gli impegni presi cinque anni fa sottoscrivendo gli Accordi di Parigi, non è detto che la riduzione dei gas serra immessi nell’atmosfera sarebbe tale da contenere entro i 2 gradi centigradi la crescita della temperatura media sulla Terra. A maggior ragione se si fatica, come accade un po’ ovunque, a perseguire i target che ogni paese si era dato nel 2015 nella capitale francese. Se ridurre le emissioni di CO2 è così difficile, si può allora immaginare di “riassorbire” l’anidride carbonica emessa. È la cosiddetta carbon capture, la cattura del carbonio, che sempre più scienziati ritengono ormai fondamentale affiancare agli sforzi per tagliare le emissioni.

Ne sono convinti gli studiosi Onu dell’Intergovernmental panel for Climate Change (Ipcc), che da tempo indicano la carbon capture fra le strategie fondamentali per poter raggiungere gli obiettivi indicati dagli accordi di Parigi. E anche un glaciologo come il britannico Peter Wadhams, che ha dedicato tutta la vita a studiare i ghiacci dell’Artico, di fronte al loro scioglimento ritiene che il taglio delle emissioni non sarà sufficiente ad arrestare il processo di riscaldamento: “Possiamo anche ridurre la CO2 che immettiamo oggi nell’atmosfera”, spiega Wadhams, “ma per invertire la rotta dovremo anche eliminarne molta di quella che vi abbiamo rilasciato negli ultimi 200 anni”.

Il traguardo è ambiziosissimo: rimuovere mille miliardi di tonnellate di CO2. Qualcuno ha paragonato questo colossale sforzo retroattivo allo smaltimento di cinque miliardi di automobili, mentre oggi sulle strade ne circola poco più di un miliardo. Lo stesso Wadhams l’anno scorso ha tralasciato i suoi amati ghiacci polar i per una esplorazione di altro tipo: in California ha visitato centri di ricerca e aziende che sperimentano tecnologie per la cattura del carbonio, ma anche per le fasi successive del processo. Perché, una volta catturata, la CO2 va messa da qualche parte (stoccata), oppure reimmessa nel circuito produttivo (usata). Nasce così l’acronimo Ccus, carbon capture, utilization and storage.

L’esperimento

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In effetti Oltreoceano si sta cercando di trasformare questa necessità ambientale in una opportunità di business. Il sito airminers.org raccoglie le compagnie che si impegnano in questo settore: sono soprattutto statunitensi o canadesi, con poche eccezioni europee (Regno Unito e paesi nordici).
 

“Queste tecnologie rappresentano una opportunità soprattutto per paesi ricchi di combustibili fossili o che hanno centrali a carbone per sostenere il loro fabbisogno energetico. E così si spiega l’interesse di aziende nordamericane, ma anche della Norvegia, ricca di petrolio e che ha il più grande impianto europeo di cattura del carbonio”, spiega Massimo Tavoni, direttore dello European Institute on the Economics and the Environment. “Chi estrae petrolio”, continua  l’economista, “ha interesse a ridurre l’impatto ambientale assorbendo CO2 dall’atmosfera, ma ha anche un luogo dove stoccarla sotto terra e cioè i giacimenti petroliferi ormai esauriti. Chi ha tante centrali a carbone può tagliare le emissioni installando sulle ciminiere trappole per la CO2. Ci sono Paesi come la Cina che hanno centrali a carbone giovani e che saranno operative ancora per 30 anni: con la cattura del carbonio potrebbero prolungarne la vita anziché chiuderle”.

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Il problema è proprio questo: il sistema produttivo attuale è talmente dipendente dai combustibili fossili che una conversione totale e immediata alle rinnovabili pare impossibile. La cattura della CO2 renderebbe possibile una transizione più graduale: nell’attesa che solare e fotovoltaico soddisfino tutti i nostri fabbisogni, si potrebbe continuare a usare carbone e petrolio sequestrandone però la CO2 emessa.

A questo possibile scenario ha dedicato l’estate scorsa un approfondito rapporto la società di consulenza McKinsey & Company. Secondo gli esperti di McKinsey, nei prossimi dieci anni la cattura e il riuso della CO2 potrebbero decuplicare rispetto ai valori attuali. Oggi si sequestrano e usano (soprattutto per rendere effervescenti le bevande e per estrarre petrolio dai giacimenti in esaurimento) circa 50 milioni di tonnellate di anidride carbonica: nel 2030 si potrebbe arrivare a 500 milioni di tonnellate. Ma una tale espansione, scrive McKinsey, sarà possibile solo se i costi delle tecniche di cattura saranno abbattuti, se saranno previsti incentivi economici per questa attività e se la CO2 recuperata potrà avere un valore economico come materia prima.

Oltre a essere pompata nei pozzi per spingere fuori il petrolio residuo, attualmente la CO2 non ha utilizzi industriali remunerativi. Un settore a cui si guarda con interesse per il futuro è quello dell’edilizia: il cemento (materiale per produrre il quale si usa moltissima energia) in futuro potrebbe essere fatto al 25% di CO2. E c’è anche chi immagina di ricombinare la CO2 catturata con l’idrogeno, in modo da formare idrocarburi che possano poi alimentare i motori dei jet. O ancora estrarre il carbonio e farne fibre, versatilissime, visto che si usano per costruire di tutto: dalle racchette da tennis alle ali degli aerei.

“Ma per quanto si possano immaginare usi del carbonio catturato, le quantità in gioco sono tali da richiedere altre soluzioni”, avverte Tavoni. “Possiamo anche sfornare fibra di carbonio a volontà, ma non smaltiremo certo così i miliardi di tonnellate di CO2 che vanno tolte dall’atmosfera. L’unica vera soluzione è lo stoccaggio sotto terra e parte avvantaggiato chi ha giacimenti vuoti dove poter immagazzinare questo gas”. Non a caso poche settimane fa il colosso British Petroleum ha presentato un progetto per depositare sotto il fondo del Mare del Nord 17 milioni di tonnellate di CO2 all’anno.

(Infografiche animate a cura di Gedi Visual)

Le vere difficoltà tecniche ed economiche sono però relative all’inizio di questa nuova filiera: più che come stoccarla o riutilizzarla, il vero problema è come catturare la CO2. E soprattutto a che prezzo. Posizionare una trappola per anidride carbonica in cima al comignolo di uno stabilimento industriale, grazie ai progressi tecnologici, è facile ed economico: per catturare in questo modo una tonnellata di CO2 si spendono dai 25 ai 30 dollari. Se però il biossido di carbonio è mescolato ad altri gas e va isolato, i costi possono salire fino a 60-150 dollari per tonnellata. “E questi filtri – spiega Tavoni –  vanno rigenerati e per farlo occorre energia, che a sua volta emette CO2. Per questo c’è chi fa resistenza ad adottarli”.Discorso ancora più complesso se si vuole catturare la CO2 una volta che si è già dispersa nell’atmosfera. Le concentrazioni infatti sono bassissime: 400 parti per milione. E dare la caccia alle singole molecole di anidride carbonica rischia di essere costoso: fino a 500 dollari per ogni tonnellata catturata. Prezzi che, secondo McKinsey, rendono per ora proibitiva la nascita di un mercato del carbonio. A meno che non ci siano incentivi pubblici per la cattura, lo stoccaggio e l’uso. Negli Stati Uniti già oggi c’è un credito d’imposta di 35 dollari per chi usa CO2 catturata e di 50 dollari per chi la immagazzina sotto terra.

Il report

“Ue, raddoppiare le energie rinnovabili per rispettare gli impegni entro il 2030”

Ci sono però associazioni ambientaliste contrarie a questi meccanismi: temono che colossali risorse pubbliche possano essere destinate alla cattura della CO2, prolungando così la vita delle fonti fossili, piuttosto che essere destinate a gettare le basi per una società davvero basata sulle rinnovabili. “Io non vedo questo pericolo”, conclude Tavoni. “La strada è ormai segnata e il futuro sarà delle rinnovabili. La cattura del carbonio può però aiutarci a limitare i danni in un periodo di transizione che non sarà brevissimo”.  

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