Perché Nole Djokovic non vince da anni gli Us Open? Era quello che si chiedevano tutti lasciando l’Arthur Ashe Stadium dove il serbo ha spazzato via la resistenza dell’americano di turno, Taylor Fritz. Ha strappato a Roger Federer un altro primato: ha raggiunto 47 semifinali del Grande Slam, una in più di Federer. E tredici sono agli Us Open. Un record nel tennis maschile. E quando glielo ricordano si commuove un po’, lui così siberiano, e dice: “Io devo tutto al tennis, questo sport mi ha regalato tutto quello che volevo”. Anche i 23 tornei del Grande Slam, anche il record delle semifinali, ma non delle finali a New York.
L’allergia a New York
Nole ha vinto 6-1 6-4 6-4 con sette aces, il 61 per cento di prima di servizio, il 68 per cento di punti conquistati quando la prima è entrata. Numeri non eccezionali, ma la somma lo è stata: lo strapotere fisico, tecnico e mentale di Djokovic ha risvegliato nei ventimila dello stadio vecchie sensazioni e antiche domande: perché uno così non vince dal 2018? Cinque anni, un’era nel mondo di Nole. Da allora hanno trionfato Rafael Nadal, Dominic Thiem, Danil Medvedev e Carlos Alcaraz. Djokovic ha saltato un’edizione perché non voleva vaccinarsi per il Covid e perso la finale del 2021. Ma le statistiche non sembrano sufficienti a spiegare. È considerato il più grande giocatore di tutti i tempi sui terreni veloci, è 10-0 nelle finali agli Australian Open, ha vinto su questa superficie l’85 per cento delle partite. Ma ha vinto solo una finale su tre di quelle giocate. Tre su sei. A Flushing Meadows è la sua peggiore percentuale. “In effetti è pazzesco”, commenta Brad Gilbert, ex coach di Andre Agassi e di Andy Murray, mentre legge le statistiche. Qui fa il commentatore televisivo e l’allenatore di Coco Gauff. Ok, pazzesco, ma poi?
La risposta di Nole
Alla fine tocca rispondere a Djokovic: “Il fatto – spiega nel dopo gara – è che questo torneo arriva alla fine di una lunga stagione, sono otto duri mesi di tennis per tutti”. Per questo gli Open qui sono i più imprevedibili. Da quindici anni non c’è nessuno in grado di vincere il torneo per due anni di fila. L’ultimo era stato Federer, cinque successi consecutivi, ma qui si entra nel campo del sacro. Nelle finali a New York il serbo ha dovuto affrontare, in media, avversari più duri rispetto alle finali degli altri tornei del Grande Slam. In Australia la media del ranking dei suoi avversari era 7.1, a Parigi 3.6, a Wimbledon 7.8. Qui è stata finora di 2.2. Se arriverà in finale, potrebbe trovare Alcaraz, arrivato nella Grande Mela da numero uno. “Per me a quest’età – ammette – devo cogliere ogni occasione e godermela fino in fondo. Sono fortunato perché da questo sport ho avuto tutto”. “Vengo dalla Serbia, un Paese stravolto dalla guerra, e questo mi ha aiutato ad affrontare le avversità, con l’aiuto dei miei genitori che sono qui”. E poi i newyorkesi. “Questo pubblico – aggiunge – mi trasmette sempre grande energia. Devo solo guardare avanti e vedere che cosa mi riserverà la prossima partita. Devo cercare di riposare, recuperare, fare i massaggi e bere qualcosa”. Gli chiedono cosa beva e lui: “acqua e limone, quello è il mio drink”. A 36 anni Djokovic non vuole sgarrare. Lui ha in mente solo una cosa: la finale, per chiudere i conti con una domanda che lo insegue da cinque anni.
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