Valentina Romani, il talento non ha ancora trent’anni. “La tv abbatte muri e supera ostacoli, per questo riesce a parlare ai giovani”

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Valentina Romani, 27 anni, romana, ha sempre voluto fare l’attrice. Fin da bambina, dice, quando andava in vacanza con i suoi cugini in Toscana. Raccontare storie è diventata un’estensione della sua natura: le piace, è quello che cerca; e in un certo senso non riesce a farne a meno. Nel corso degli anni, ha preso parte a film e serie tv di grande successo. Per citarne alcune: Mare fuori, La porta rossa, Skam. Quest’anno, è stata al cinema con Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti, un ruolo che – ammette – le è sembrato come un regalo. Dal 22 novembre sarà in Noi siamo leggenda, serie di genere prodotta da Rai Fiction e Fabula Pictures: prima andrà in onda su Rai 2 e sarà disponibile su RaiPlay; successivamente arriverà in streaming su Prime Video.

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La cosa che più l’ha attratta di questo ruolo, racconta, è stato il poter lavorare nuovamente con il regista Carmine Elia, con cui ha condiviso diversi set. Parla di fiducia e rispetto, Valentina Romani. E parla delle responsabilità che, cominciando a lavorare così presto, ha dovuto imparare ad affrontare. Definisce il talento come “la pancia”, e si sente al sicuro quando sente di non doversi spostare, di essere nel posto giusto. Interpretare tanti personaggi può essere una sfida, spiega, ma è importante preservare sé stessi, ricordandosi ciò che si è. Le piace seguire i film Marvel e uno dei suoi personaggi preferiti è Wanda. Per lei recitare rappresenta una possibilità. Quella di illuminare la parte più bambina di un interprete. Pochi giorni fa, ha finito con le riprese della seconda stagione di Tutto chiede salvezza, prossimamente su Netflix. “In tempi non sospetti avevo parlato bene della serie e degli attori in un’intervista”, dice. “È importante trattare un argomento delicato come la salute mentale in questo modo. Sono stata felice di entrare a far parte del progetto. Credo che per noi attori sia sempre bello sentirsi portavoce di temi simili”.

Dal suo punto di vista, come attrice e spettatrice, la televisione è il posto migliore dove raccontare i giovani?
“Sicuramente l’audiovisivo è un grande mezzo di comunicazione, perché è alla portata di tutti. Abbatte molti muri e supera diversi ostacoli. Chi guarda, come spettatore, può fare le sue considerazioni. Tutto ciò che stimola delle domande è qualcosa che ci può arricchire come persone”.

Valentina Romani con Nicolas Maupas in 'Mare fuori'

Ma la televisione più del cinema, ultimamente?
“Non mi sento di dire così. Il cinema, grazie ad alcuni film come quello di Paola Cortellesi, C’è ancora domani, sta attirando di nuovo pubblico. Le sale, oggi, sono piene. Forse recentemente la televisione ha avuto un ruolo più centrale perché le cose, con il Covid, sono cambiate. Ma non credo che ora la situazione sia la stessa. Per questo preferisco parlarne in generale”.

A cinque anni aveva già le idee chiare: voleva fare l’attrice.
“Quando ero piccola, mi divertivo a organizzare degli spettacoli con i miei cugini. Ci vedevamo in Toscana, nella casa che la nostra famiglia ha vicino al mare, e passavano l’estate insieme. Io davo indicazioni a tutti su cosa fare, e i miei zii e i miei genitori erano costretti ad assistere. Ho sempre amato raccontare le storie e inventarle. Crescendo, questo desiderio non è mai andato via. Anzi, si è rafforzato. Recitare è stata una scelta naturale. Dentro di me, sapevo di volerlo fare”.

Com’era da bambina?
“Esuberante. Un bel peperino, ecco”.

Quando ha cominciato a lavorare, era molto giovane. Assumersi così tante responsabilità, quasi all’improvviso, suona come diventare adulti.
“In un certo senso sì, è così. Lavorare ti mette davanti a diverse scelte, alcune anche molto difficili. Io non ho mai avuto paura delle responsabilità. Mi ritengo coraggiosa, in questo. Sono determinata. E se mi metto in testa un obiettivo, mi impegno al massimo per raggiungerlo. Sapevo che questi erano dei sacrifici, certo, ma sapevo pure che, con il tempo, avrebbero avuto senso”.

Qual è stato il sacrificio più grande?
“Perdersi dei momenti in famiglia, con degli amici. Non sono andato alla laurea di mio fratello per questo lavoro, ed è una delle cose che ricordo con più amarezza. Però, ecco, più che sacrifici credo che questi siano investimenti”.

In che senso?
“Se ero via, ero via per recitare. Sono molto legata alle mie radici, alle amicizie d’infanzia, ai rapporti con cui sono cresciuta. Non sono mai stata colpevolizzata per questo. Tutti hanno visto la mia determinazione, e probabilmente sono stata brava nel gestire le mie assenze”.

Ed è contenta?
“Lo sono, sì. Perché so che tutte queste cose che ho perso, che in un primo momento sentivo come dolorose, mi hanno permesso di arrivare dove sono oggi”.

Valentina Romani, Lino Guanciale e Gabriella Pession in 'La porta rossa'

Suo fratello è più grande di lei? Che rapporto avete?
“Sì, è più grande di me. Abbiamo un rapporto di profonda stima. È una persona molto diversa, non ci assomigliamo per niente, e questa è una grande fortuna. Tra l’altro, da qualche anno è diventato il mio allenatore. Si è laureato in Scienze e tecniche dello sport e adesso fa il personal trainer. Quindi per me, oltre a essere un’ora di esercizio fisico, è quasi una seduta di psicoterapia”.

Ha preso parte a tanti successi televisivi come ‘Skam’, ‘La porta rossa’ e ‘Mare fuori’. Secondo lei c’è un pericolo “tormentone”, di venire associati unicamente a un personaggio?
“No, non credo. Se abbiamo l’intelligenza di vedere il bicchiere mezzo pieno e non mezzo vuoto, sono delle grandi opportunità. Sono molto grata a Mare fuori e a La porta rossa, che mi ha accompagnato dai 19 ai 25 anni. Ma come dicevo: non credo che possano essere un pericolo. Il pubblico è intelligente, si affeziona ai personaggi, ma capisce che facciamo anche altro. È un lavoro che bisogna fare con calma, di pari passo con le scelte che si prendono”.

Nel film 'Il sol dell'avvenire' Valentina Romani interpreta la figlia di Nanni Moretti

Che cosa l’ha incuriosita di “Noi siamo leggenda”?
“Sicuramente la cosa che mi ha spinto più di tutte ad accettare questo ruolo è la fiducia profonda che ripongo in Carmine Elia, il regista, con cui ho già lavorato per Mare fuori e La porta rossa. È un grande direttore d’orchestra. In più, il fatto di fare una serie come questa è stato interessante. Noi siamo leggenda è, nella nostra televisione, un progetto piuttosto nuovo, che gioca con il genere. Il mio personaggio è misterioso e tenace ed è alla ricerca della verità”.

È cresciuta guardando film e serie di genere?
“Sì. Io sono una grande fan Marvel. Uno dei miei supereroi preferiti è Wanda”.

Quanto è stato importante trovare un regista come Carmine Elia e costruire un legame simile con lui?
“In questo lavoro c’è una componente a cui, spesso, non si pensa. Ogni volta che prendiamo parte a un progetto, dobbiamo cominciare da capo. I colleghi e la troupe non sono quasi mai gli stessi. Avere dei punti di riferimento, come Carmine Elia, fa la differenza. Soprattutto in un mestiere come questo, che è in continuo mutamento. Carmine è una persona a cui voglio bene, che sento anche al di fuori del lavoro. E questa cosa, quando accade, è sempre molto bella”.

Valentina Romani nella serie 'Noi siamo leggenda', dal 22 novembre su Rai 2 e RaiPlay, poi su Prime Video

E allora le chiedo: quant’è difficile affidarsi a un regista che non si conosce?
“C’è una fase che io amo molto e che è quella della preparazione: quando, prima di andare sul set, si leggono i copioni e si provano i costumi. Quello è un momento catartico per gli attori. Perché si comincia a capire chi è davvero un personaggio, qual è il suo carattere e che mondo stiamo per raccontare. E non sempre è facile, no. Perché, appunto, non sempre puoi lavorare con persone che conosci. E quindi, prima ancora di scoprire il personaggio, devi scoprire chi ti sta vicino. Io sono curiosa. Più che di difficoltà, parlerei di fatica. Questo sì. Ed è grazie a questa fatica che si costruiscono i personaggi. Le faccio un esempio”.

Mi dica.
“Ricordo ancora quando, durante le prime letture per Mare fuori, Carmine mi disse di pensare al mio personaggio come a Trilli di Peter Pan. Ecco, da quel momento, ho visto Naditza sotto questa luce. Ho provato a trasformarla in un fiore di primavera, tenendo presente la cupezza che a volte riempie la storia e l’ambientazione”.

Come si fa ad affrontare un nuovo ruolo senza dimenticarsi di sé stessi?
“Bisogna accoglierlo con gentilezza, mantenendo una distanza precisa. Chi siamo è ciò che ci permette di diventare tante cose diverse. E sono quelle la chiave e la forza del lavoro dell’attore. Se ci perdiamo, rischiamo di ritrovarci ingolfati in un meccanismo difficile da sciogliere. Ciò che provo a fare è rimanere me stessa, ascoltandomi e stando attenta a quello che provo”.

In questo senso, immagino siano fondamentali i no.
“Sono scelte. Proprio come sono scelte i sì. Sono quindi determinanti per la carriera e il percorso di un interprete. Non ha senso girarci intorno”.

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Com’è stato confrontarsi con un autore come Nanni Moretti ne ‘Il sol dell’avvenire’?
“Ho sempre amato il suo cinema, non lo nascondo. E questo per me è stato come realizzare un sogno. Lavorare con lui è stato un grande onore e una grande fortuna. È un regista molto generoso, che mi ha accolto a braccia aperte nella sua famiglia. Mi sono sentita immediatamente a mio agio. Avevo la sensazione, e ce l’ho ancora adesso, di aver fatto parte di un film prestigioso. E non solo per lui, per Moretti, ma anche per il resto del cast. Provo profonda stima per attori come Silvio Orlando e Margherita Buy”.

Come si sente quando si rivede sul grande e sul piccolo schermo?
“Negli anni ho capito che c’è sempre un oceano tra quello che credi di aver fatto sul set e quello che, invece, hai fatto davvero. La macchina da presa è un mezzo molto potente, che legge e cattura delle cose che sono fuori dal nostro controllo. Ha un suo linguaggio, e per imparare a parlare questa lingua serve rivedersi. Con il tempo, ho imparato a farlo senza giudicarmi troppo duramente”.

Dove finisce lo studio e inizia il talento?
“Lo studio non finisce mai. Mi sento di dire che senza studio un personaggio come quello de La porta rossa sarebbe stato impossibile da fare. Per esempio, c’erano delle scene con Lino Guanciale in cui dovevo ricordare perfettamente quello che avevamo fatto. Le provavamo prima insieme e poi le dovevo rifare da sola. Talento e studio, per me, vanno di pari passo. Lo studio serve per sostenere il talento, e il talento serve per dare sostanza allo studio”.

Che cos’è il talento?
“È la pancia, è tutto ciò che ti guida liberamente, che ti scorre dentro e che ti porta in alcune direzioni. Con lo studio, c’è un percorso più definito. Ma insieme studio e talento possono fare cose incredibili. Il talento a volte basta, ma è fondamentale avere anche una struttura, per sentirsi sicuri”.

Vivere l’attimo assomiglia molto all’innamoramento.
“Forse sì. Perché è tutto ciò che è al di fuori dal tuo controllo, proprio come sono fuori dal tuo controllo i sentimenti forti. E per fortuna, mi viene da dire”.

Ma c’è il rischio di rimanere delusi?
“Sì, assolutamente sì. Non sempre si torna a casa felici. Anche questo, però, fa parte del – chiamiamolo così – gioco. Può succedere di non sentirsi pienamente soddisfatti, e l’importante, a quel punto, è imparare ad accettare quello che è stato fatto. Il rischio, come dicevo prima, è di finire ingolfati”.

Ed è facile dire “va bene così”?
“No, per niente. Le dico quello che sto provando a fare io, e mi è capitato di tornare a casa insoddisfatta. Ed è dura, quando succede. È dura dirsi: va bene così. Provarci, però, serve. Proprio perché in questo modo non si perde di vista l’obiettivo che ci siamo dati”.

Rispetto a quelle giornate passate in Toscana con i suoi cugini, quante cose sono cambiate oggi?
“Suonerà strano, ma non credo che ne siano cambiate tante. Le radici restano centrali per me. Continuo a coltivarle e a trattarle con cura e rispetto. Quel nucleo di persone, dai parenti agli amici, resiste. Sono i rapporti più veri che ho. Quello che è cambiato è il ritmo della vita. Sono aumentate le responsabilità, ma – come le dicevo – non è una cosa che mi spaventa. So di aver bruciato qualche tappa, ma non l’ho mai sofferto; non è stata una consapevolezza dura da digerire. Qualche anno fa, ho deciso di iscrivermi all’Università. E mi ha aiutato a recuperare determinate esperienze. I rapporti vanno annaffiati, come delle piantine”.

Dove si sente più al sicuro?
“Mi sento sicura quando mi sento al mio posto, quando non penso di dover essere altrove. A volte mi capita a casa, con i miei affetti e la mia famiglia, e a volte mi capita sul set”.

Che cosa significa, per lei, recitare?
“Significa tante cose, non una sola. Io ci tengo molto a divertirmi quando recito. Credo che sia veramente importante. Questo è un mestiere che ci dà la possibilità di illuminare la nostra parte bambina; recitare vuol dire esaltarla, darle spazio”.

Mi pare che questo faccia da bilanciamento con le responsabilità che ha dovuto affrontare.
“Sì, assolutamente. E la nostra parte bambina trova terreno fertile nella libertà dei singoli attimi e nella spensieratezza che a volte li riempie”.

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