Viaggio sulle alture di Pinerolo, terra di vini estremi con vista sull’infinito

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Collina di Santa Brigida, 5 minuti in auto dal centro di Pinerolo, ma già a 600 metri di altitudine: parte da questa vigna quasi a picco sulla città, coltivata a Freisa, Barbera e Favorita con il profilo del Monviso sullo sfondo, il viaggio nella nouvelle vague del vino pinerolese. I protagonisti sono una generazione di vignerons trenta-quarantenni che stanno rinnovando un territorio dalle potenzialità enologiche ancora parzialmente inespresse. Alex Dellerba, assieme ai fratelli Luca e Andrea conduce l’azienda agricola di famiglia e segue la parte vitivinicola. “Stiamo completando la nuova cantina e attualmente produciamo circa 4 mila bottiglie, prevalentemente uvaggi rossi e bianchi, ma per l’immediato futuro ci sono in progetto un rosè e un metodo classico.” L’entusiasmo certo non manca e il posto, dal punto di vista panoramico, è splendido.

Pinerolo Alex Dellerba nel vigneto di famiglia © Photo Dario Bragaglia  

Per Gianpiero Gerbi, enologo che conosce bene la zona del Pinerolese, “siamo di fronte ad un territorio che è alla periferia dell’impero vinicolo piemontese, ma ha una tradizione ben radicata legata principalmente ai vini rossi, anche se alcune aziende, vista la composizione di certi terreni,  stanno puntando sui bianchi, con risultati interessanti.”

Per capirne di più, saliamo alla Vigna del Pilun d’la Crus (Pilone della Croce) a circa 650 metri di altitudine, sostenuta da muretti a secco, nella parte alta della collina di Bricherasio. È il vigneto dove Luca Trombotto, titolare dell’azienda La Rivà e presidente del Consorzio tutela vini DOC Pinerolese, produce il suo Doux d’Henry, uno dei vini simbolo del territorio. “Il lavoro in vigna è difficile non solo per le pendenze, occorre diradare con attenzione per far arrivare a maturazione i grappoli, ma questi sono vigneti dal forte valore simbolico: arrivano in eredità da Giovanni Paschetto, bisnonno di mia moglie Nadia che li acquistò con i soldi messi da parte quando era emigrato in Argentina”.

E, a proposito di vini bianchi, Trombotto sta valorizzando un’altra varietà autoctona, il Blanchet, che ormai riesce a produrre in purezza. Messo in bottiglia dopo un anno di acciaio, nel bicchiere si presenta di un bel giallo paglierino, profumato al naso e sapido in bocca. A Pomaretto, dove la Val Germanasca si stacca dalla Val Chisone, fra i 670 e gli 850 metri di altitudine, Luca possiede le vigne del Ramìe, altro vino emblematico di un’area dove la viticultura ha valenze davvero eroiche. La raccolta è manuale, il trasporto delle cassette avviene a spalla, ma questi vigneti sono l’espressione più tipica della locale tradizione viticola. Le quattro varietà principali che entrano nel disciplinare del Ramìe, ovvero Avanà, Averengo, Becuet e Chatus (più altre in quantità minore) sono spesso presenti nella stessa vigna, perché in passato ogni proprietario tendeva a diversificare per minimizzare i rischi. Il nome deriva dalle caratteristiche cataste di rami, ramìe in dialetto, che venivano riposte ai bordi dei ripidi pendii sopra Pomaretto dopo il disboscamento per impiantare nuovi vigneti.

Ce ne rendiamo conto quando saliamo con Daniele Coutandin su terrazzamenti, dove la verticalità è l’elemento caratterizzante. Daniele, che oggi ha 54 anni, è un po’ il fratello maggiore della nuova generazione di vignaioli che si affacciano sul mercato. Ed è anche il personaggio emblematico della resistenza enologica della valle, colui che con ostinazione continua a coltivare i novemila metri quadrati di vigneto acquistati una trentina di anni fa dal padre Giuliano. “Continuo a produrre 2000-2500 bottiglie all’anno perché faccio praticamente tutto da solo, non posso permettermi dipendenti” ci racconta mentre passeggiamo fra muretti a secco dove, nonostante i 700 metri di altitudine, crescono fichi d’india, capperi e finocchietto selvatico. Un microclima particolare, culla del Ramìe, il vino che Coutandin ha contribuito a salvare dall’oblio. “Oggi siamo sette produttori, molti sono giovani, ed è un segnale che le cose stanno lentamente cambiando”. Nonostante le difficoltà, perché qui l’unica concessione alla modernità è la piccola monorotaia che aiuta a far salire le cassette al momento della vendemmia o a trasportare le pietre per riparare i muretti.

Pomaretto. Daniele Coutandin nelle sue vigne dove crescono anche fichi d’India e capperi © Photo Dario Bragaglia  

La prossima scommessa di Daniele sarà la valorizzazione di un altro vitigno autoctono a bacca bianca, il Bian Ver (il Verdesse d’oltralpe) di cui sta sperimentando sia la spumantizzazione sia la versione secca con fermentazione sulle bucce.

Sopra le vigne di Coutandin, il Comune di Pomaretto ha da poco recuperato un Ciabot, una casetta in pietra che serviva da riparo per gli attrezzi, circondato da vigneti che vari proprietari hanno dato in concessione e dove sono state impiantate oltre 1000 barbatelle. Dal terrazzo panoramico del Ciabot, dove vale la pena fare una degustazione, si gode una vista complessiva sui vigneti terrazzati e sull’imbocco della Val Germanasca. Valle che bisogna risalire fino all’ex miniera di talco di Prali, a circa 1200 metri di altitudine per scoprire un’altra chicca enologica del Pinerolese.

Pinerolo e i suoi vini d’alta quota: storie di passione e vigneti eroici

Volti di giovani vigneron e di pionieri delle uve autoctone. Il Pinerolese riparte dal passato con nuovo slancio nel valorizzare i frutti della vite. La certezza restano la vista mozzafiao sulle valli e sulle Alpi e il gusto deciso di prodotti figli di determinazione e fatica

È qui che L’Autin, azienda vinicola di Barge (8 ettari, produzione di circa 40 mila bottiglie), fa affinare le sue bollicine metodo classico “Quando ho scoperto che a circa un chilometro di profondità nelle viscere della montagna c’erano ambienti con temperatura stabile tutto l’anno a 10° centigradi, simile a quella delle cave di gesso dove affina lo champagne, mi sono detto che c’era una ragione in più per spumantizzare le nostre uve” racconta Mauro Camusso, fondatore de L’Autin. Il nome in dialetto significa “piccola vigna” ed era il posto dove Mauro andava da bambino con il nonno a potare le piante. I vigneti, oltre che attorno alla cantina di Barge si trovano a Campiglione Fenile, su terreni alluvionali e sabbiosi, particolarmente adatti ai vitigni bianchi, in particolare allo Chardonnay che assieme al Pinot Noir è la base per l’Eli Brut, lo spumante dedicato alla figlia. Interessante l’aggiunta di un 10% circa di Blanchet che dà un tocco di tipicità a queste bollicine “estreme” per via della quota di affinamento e della complessità dello stoccaggio. L’operazione  viene fatta utilizzando il trenino della miniera e poi immagazzinando le bottiglie una a una. Un anno dopo il Brut, nel 2017 è stato commercializzato anche l’ottimo Eli Rosè, bollicine che nascono al 100 per cento da uve Pinot Noir.

Nel futuro di Mauro Camusso c’è un’altra sfida in altitudine ispirata dal Monte Bracco, la montagna descritta da Leonardo da Vinci che si trova proprio alla spalle della cantina. A circa 900 metri attorno al Convento della Trappa è già stato impiantato un vigneto di Malvasia Moscata (uve da cui nasce il pluripremiato passito Passi di Giò), ma l’ultima sperimentazione è nata a 1250 metri di altitudine quasi sulla cima della montagna. In una ex cava di quarzite sono state messe a dimora barbatelle di Sauvignon, Malvasia, Bian Ver, Pinot Noir. Vista la quota ci vorrà un po’ di pazienza perché le piante entrino in produzione, ma questo diventerà presto uno dei vigneti più alti d’Europa.

L’appuntamento

Domenica 5 settembre al Ciabot del Ramìe, sopra Pomaretto, viene organizzato il “Tramonto in Vigna”. Dalle 17 alle 22 si potranno degustare bottiglie di Ramìe dei vari produttori con Djset. Al vino si accompagnano i prodotti del territorio, come il formaggio del Dahu, lardo, salame al Ramìe, mocetta. Per info e prenotazioni: 349 1889748.

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