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Voci dalla Costa Concordia, dieci anni dopo il naufragio al Giglio: “Trauma insuperabile”

Dieci anni fa, alle 21.45 del 13 gennaio 2012, la punta di uno scoglio davanti all’isola del Giglio incise il lato sinistro della Costa Concordia, sotto il comando di Francesco Schettino, provocando una falla di 70 metri. La storia imboccò in quel momento la strada che avrebbe portato alla morte di trentadue persone e a una delle più gravi tragedie del mare. Il podcast in 4 puntate Voci da un naufragio – Il disastro della Costa Concordia, racconta quella notte attraverso le parole di chi era a bordo, cercando disperatamente la via della salvezza.

Come Massimiliano Moroni, di Pomezia, imbarcato con la famiglia. «Eravamo nella sala giochi e abbiamo sentito come un terremoto perché la nave ha cominciato a tremare tutta e si è inclinata. Ho detto a mio cugino: c’è qualcosa che non va perché questa è una città galleggiante, come fa a muoversi così? Poi – continua Moroni – è andata via la luce, la gente era nel panico, scappava, sulle scale c’erano giacchetti, scarpe, passeggini. Mia moglie si era attaccata al corrimano della scala e non voleva muoversi, mia figlia le diceva: mamma, andiamo, andiamo…».

Nel podcast anche la testimonianza di chi, come l’ex vicesindaco del Giglio, Mario Pellegrini, decise di soccorrere i naufraghi arrampicandosi sulla biscaggina che Schettino si era rifiutato di risalire. «Era una scaletta di corda appesa nel vuoto. Io l’ho risalita ma non era facile, ci vuole forza e un po’ di coraggio». Pellegrini era a bordo quando la nave si rovesciò su un fianco. Fu allora che la maggior parte dei passeggeri rimasti a bordo morì, risucchiato dall’acqua che invase la nave, mentre molti altri finirono nel corridoio allagato. Pellegrini mantenne il sangue freddo: «Gettai una corda e tirai su le persone con l’acqua alla gola. Insieme all’ufficiale Simone Canessa abbiamo fatto uscire 5-600. L’ultima, alle 5,30 del mattino, una ragazza con una gamba rotta. Io e Canessa siamo stati gli ultimi a uscire dalla nave. A livello istituzionale – aggiunge amaro – nessuno ci ha ringraziato. Come se li avessimo mandati a morire. Ci hanno dimenticati».

Voci da un naufragio è anche la storia di Gregorio De Falco, all’epoca a capo della sala operativa della capitaneria di porto di Livorno, che rivive ora per ora la notte della tragedia: da quando fu chiamato in sala operativa alle conversazioni con Schettino nel tentativo di convincerlo a risalire a bordo, dal famoso “Salga a bordo, cazzo” alle risposte disorientanti del comandante della Concordia, come quando si giustificò per avere abbandonato la nave sostenendo di essere stato “cappottato” in acqua. «Credeva di parlare con qualcuno che, essendo lontano, non sapesse nulla della situazione. Non ero lì, ma i miei occhi erano le motovedette e gli elicotteri». Oggi l’ex comandante della Concordia è nel carcere di Rebibbia, condannato a 16 anni per omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, naufragio colposo e abbandono della nave. Altri cinque imputati hanno patteggiato meno di tre anni.

Moroni si è fatto tatuare sul polpaccio la nave reclinata sovrastata da due ali di angeli. «Da quella notte – dice – non riesco ad andare a vedere i saggi di danza di mia figlia, non riesco ad andare a un concerto o su un autobus. Se sto in un posto troppo affollato mi sento male e svengo». Per De Falco, oggi senatore, l’errore più grande fu di non avere dato subito l’ordine di abbandonare la nave. «Se una nave come la Concordia ha tre compartimenti contigui allagati, vuol dire che affonderà: doveva essere ritenuta nave morta e abbandonata fin dall’inizio. Probabilmente in questo modo tutti si sarebbero salvati».



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