What’s Going On e la cura di Marvin Gaye contro la paura

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Nba All Star Game, Forum di Inglewood, la vecchia casa dei Lakers a Los Angeles. E’ il 13 febbraio 1983. Le quindicimila persone presenti e i milioni di americani che guardano la partita in tv, non assistono solo all’ennesima dimostrazione di sapienza tattica di Larry Bird che, assist dopo assist, conduce l’Eastern Conference alla vittoria: l’Ovest superato 132 a 123 nell’ultima partita prima dell’avvento di Michael Jordan. Indimenticabili, in quella serata, non saranno solo i 25 punti di Julius Erving, i 16 assist e le 5 palle rubate di Magic Johnson, i ganci cielo di Kareem Abdul Jabbar. Perché, in quella serata, il prodigio avviene prima della partita, a luci accese e non ha niente a che fare con il basket. Avviene quando Marvin Gaye su un semplice loop di batteria elettronica – il suono di quei tempi – abito blu, occhiali da sole, il passo di chi è da cinque mesi in testa alle classifiche con Sexual Healing, arriva al microfono e intona lo Star Spangled Banner. E il prodigio si svela già dal primo fraseggio: la voce di Gaye, erotismo e spiritualità interconnessi, trasporta gli ascoltatori, quelli di allora come quelli che oggi possono rivedere quel canto su YouTube, nel campo di altezze e profondità sconfinate che è la musica Soul. Alle note dell’inno nazionale americano accade ciò che era già accaduto a Woodstock quando nella mattina del 18 agosto 1969 erano state distorte dalla chitarra di Jimi Hendrix: perdono ogni patina acriticamente patriottica, si fanno suono contro la paura, indicano il pericolo che la comunità sta correndo: la guerra del Vietnam allora, la seconda, impazzita, fase della Guerra fredda, in quell’inizio di 1983 che culminerà nel caso Able Archer. Pronunciate da Gaye, quelle parole diventano monito, chiedono una sospensione, impongono una domanda: “Cosa sta accadendo?”.

Riascoltiamo la soul music per capire l’America di oggi

E nessuno meglio di Marvin Gaye era in grado di porla, quella domanda. Lo aveva già fatto, 12 anni prima, nel 1971 attraverso il suo album-manifesto: What’s Going On, appunto, “Cosa sta accadendo?”, disco che il 21 maggio di quest’anno compie mezzo secolo e che è stato premiato, dalla rivista Rolling Stone, come miglior disco della storia del rock. Nove canzoni per attraversare, con una densità miracolosamente lieve, tutte le crepe della società americana di quegli anni: le proteste per la guerra in Vietnam e la condizione dei veterani, le sfide della controcultura e le lotte dei Movimenti per i diritti civili, il nuovo femminismo e la libera espressione della sessualità, l’ambientalismo che chiedeva un nuovo modello di sviluppo. Il diffondersi dell’eroina, del disagio, della povertà. Ma non solo: What’s Going On è per Marvin Gaye anche il laboratorio nel quale sezionare le proprie fragilità e angosce: il rapporto mai risolto con il padre (Gaye sarà ucciso dal genitore, Marvin Gay Sr. dopo una lite sfociata in due colpi di pistola al cuore il primo aprile del 1984) la stanchezza per il suo ruolo da popstar, il sapersi sempre e solo volto/immagine di quella Motown fucina della black music, suono della Detroit operaia, ma che si pensava come una Camelot separata dal mondo. E ancora: il dolore per la perdita della sua compagna di palco Tammi Terrel, morta nel 1970 per un tumore al cervello, il matrimonio con la sua Anna che iniziava a scricchiolare.

Marvin Gaye, 35 anni senza il volto irrequieto che sovvertì la black music

A What’s Going On Marvin Gaye arriva dopo tre anni di silenzio, dopo che la sua I Heard It Through The Grapevine era diventata, nel 1968, successo planetario. “Negli ultimi tre anni la mia disillusione è terribilmente aumentata”, l’attacco di una sua intervista del 1971. “Mi sono ritirato dalla mia immagine pubblica, mi sono preso il tempo per riflettere sulla mia vita e sull’America specialmente, perché è qui che vivo. What’s Going On mostra l’emozione che ho nei confronti del mio Paese: dovremmo cercare tutti di integrare le nostre vite in una sfera superiore”. Un disco che si fa preghiera, quindi, l’inizio di un processo di espiazione delle colpe individuali e collettive. Un canto che parte da due eventi precisi: il ritorno di suo fratello Frankie dalla guerra in Vietnam e gli scontri avvenuti a San Francisco, quartiere Haight Ashbury, nel 1969. “Tutti i miei racconti avevano a che fare con il sangue. Ma ciò che più colpì Marvin erano le storie dei bambini che in Vietnam cercavano cibo nei cassonetti dell’immondizia”, il ricordo che Frankie Gaye ha più volte rievocato. “Marvin iniziò a capire che poteva fare molto attraverso la musica”. E al musicista il gancio fu offerto da una canzone che Obie Benson dei Four Tops aveva iniziato a comporre dopo aver assistito a San Francisco, ancora capitale della Summer Of Love, agli scontri tra forze dell’ordine e manifestanti. E leggenda vuole che What’s Going On fosse stata prima offerta, in un camerino di Londra, a Joan Baez.

Gaye la utilizza per canalizzare il lavoro su se stesso come persona e come artista. Ci lavora qualche mese, aggiunge parole, sperimenta nuove forme di arrangiamento andando al di là dei canoni stilistici del suono Motown. Ma quando la propone, a metà del 1970, a Berry Gordy, deus ex machina della casa discografica di Detroit, riceve un netto rifiuto: “La cosa più brutta che abbia mai ascoltato”, commenta Gordy il cui unico intento è preservare l’apoliticità della sua star, tenere al sicuro il suo tesoro da polemiche e critiche. Ma Gaye tiene il punto. Si rifiuta di far uscire qualsiasi altra canzone che non sia quella. Resta in studio a lavorare. Tra brandy, marijuana e lunghe sessioni con i Funk Brothers. Poi il colpo di mano: senza aspettare il via libera di Gordy convince i vertici della casa discografica a far uscire la canzone nel gennaio del 1971. Centomila copie vanno via subito, la vetta della classifica è conquistata, Gaye ha vinto la sua prima battaglia. Ora c’è da finire l’album.

What’s Going On si apre con la title track. Il groove è un’onda non increspata, percussioni liquide e poche, memorabili, note di sassofono improvvisate da Eli Fountaine. Un contesto sonoro letteralmente inaudito prima di allora: la voce che si doppia diventando elemento sinfonico, lo studio di registrazione usato per dare spazialità ad ogni elemento ritmico. Poi il canto-preghiera, basso e caldo all’inizio che cresce in un’invocazione alta e struggente: “Madre, ci sono troppe di voi che piangono. Fratello, ci sono troppi di voi che muoiono. Dobbiamo trovare il modo di portare un po’ di amore qui oggi”. Parole che non avevano bisogno di nessuna spiegazione nell’America degli omicidi di Bob Kennedy e Martin Luther King, nell’America delle violenze della polizia alla Convention democratica di Chicago e dei morti della Kent State University. “Cortei e cartelli di protesta. Non punirmi così crudelmente: parla con me così potrai capire cosa succede qui oggi”. E ancora un passaggio in cui Gaye riesce a tenere pubblico e privato, evocando e condensa in una riga tutta la tragicità del proprio contesto familiare: “Padre, tutti pensano che abbiamo torto. Ma chi sono loro per giudicarci semplicemente perché i nostri capelli sono lunghi. Dobbiamo trovare un modo per portare un po’ di comprensione qui oggi”. Ne da una parte, ne dall’altra: la sola ambizione di ricomporre le fratture sociali rinnovando attraverso il canto le energie spirituali della propria comunità.

Si passa senza soluzione di continuità – una caratteristica dell’intero disco – a What’s Happening Brother, la canzone dove l’ispirazione proveniente dai racconti di Frankie è chiara sin dall’inizio. “La guerra è l’inferno, quando finirà?”. Parole e affermazioni che possono suonare semplicistiche ma che veicolate dal canto di Marvin Gaye fanno vivere all’ascoltatore lo spaesamento dei tanti veterani che in quegli anni iniziavano ad affollare le strade delle città degli Stati Uniti. Poi Flyin’ High: la tentazione, il peccato, la fuga dal mondo, quanto sia semplice e stupido sfuggire alle responsabilità attraverso il ricorso alla droga. In Save The Children la dimensione è quella di un’umanità prossima all’olocausto nucleare, “in cui non ci saranno canti nel mondo, in cui i fiori non cresceranno, in cui le campane non suoneranno”. Un mondo privo di speranza in cui “i bambini di oggi sono destinati a soffrire domani”. Il grido di Save The Children – un grido autobiografico: la lunga catena di maltrattamenti fisici e psichici in cui si può condensare il rapporto di Marvin con il padre – si salda alla preghiera sussurrata di God Is Love: “Lui sarà misericordioso: tutto quello che ci chiede è darci una mano l’un l’altro”. Ancora un richiamo alla comunità, alla necessità di curare insieme il mondo-in-comune. Mercy, Mercy Me (The Ecology) è un altro cardine del disco e della musica popolare di quegli anni: “Veleno nel vento che viene dal mare, il petrolio ha devastato gli oceani, radiazioni nel terreno e nel cielo. Quante altre offese dell’uomo potrai sopportare, mio Signore?”.

Right On e Wholy Holy traghettano l’ascoltatore verso l’epilogo, la monumentale Inner City Blues. E’ il disagio di chi vive dimenticato nelle periferie delle città senza possibilità di progettare il futuro, abbandonato da una nazione che si cura solo di “missili e missioni sulla Luna: mi viene voglia di gridare per quello che stanno facendo alla mia vita. Questo non è vivere”. La musica e il canto sempre misurati, un’assenza di eccesso che consente al messaggio di Gaye di essere trasmesso e appreso ovunque. E Inner City Blues si chiude così come si è aperto il disco. Invocando la Madre: “Tutti pensano che sbagliamo ma chi sono loro per giudicarci perché portiamo i capelli lunghi”. E la sobria radicalità di What’s Going On, la sua forza imponente e calma, lo hanno reso un disco che nel corso degli ultimi 50 anni è stato più volte utilizzato come colonna sonora della volontà di “portare comprensione” che ha animato proteste e ha fatto da balsamo alle inascoltate richieste di giustizia in ogni parte del mondo, dagli anni settanta fino alle marce e ai picchetti del Black Lives Matter.

Un altro stadio, il Tiger di Detroit, il 28 giugno 1990. Migliaia di persone attendono in silenzio una voce che negli ultimi trent’anni non aveva mai smesso di chiedere quella giustizia, quella comprensione. “Da questa città, negli anni settanta, arrivarono delle note che hanno reso la mia prigionia e quella dei miei compagni meno dura. Le note della Motown. E penso soprattutto a quelle di una canzone di Marvin Gaye: “Fratello, ci sono troppi di voi che muoiono. What’s Going On?”. Applausi e lacrime in quella Detroit che grazie alle parole appena pronunciate da Nelson Mandela rendeva omaggio all’anima scissa e sofferente, irrisolta e autentica di Marvin Gaye.

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