Pioggia

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“Abbiamo vissuto un tempo di profonda angoscia: ci ha travolto una tempesta terribile e anche adesso questa pioggia di dolore sembra non finire mai. Ci siamo bagnati, infreddoliti, ma ringrazio le tante persone che si sono strette attorno a noi per portarci il calore del loro abbraccio”.

L’orazione funebre dell’ingegner Gino Cecchettin è risuonata alta nel Duomo di Padova, lo scorso 5 gennaio al funerale della figlia Giulia, assassinata con brutalità dal ragazzo che la perseguitava dicendo di amarla. Le parole del padre della vittima hanno impressionato tutti e il presidente della sua regione, Luca Zaia, ha auspicato che vengano lette nelle scuole. Credo che molti insegnanti ci avrebbero comunque pensato da sé. Rilette nel testo come è stato pubblicato il giorno dopo si mostrano, come già al primo ascolto, non soltanto commoventi: anche e soprattutto esemplari. Ma esemplari di cosa?

Per l’ingegner Cecchettin il dolore è una pioggia: infradicia, infreddolisce ma si può sperare che fecondi e dia germogli e frutti. Nella nostra società il dolore è invece uno spettacolo, come ha spiegato già da trent’anni il sociologo Luc Boltanski, e alle vittime secondarie dei delitti – cioè ai famigliari e ai superstiti – noi in platea riserviamo un’attenzione vólta più che altro a valutarne il grado di “dignità”. Qualsiasi cosa abbiano da dire diventa facilmente, nelle cronache, un “pianto” o un “urlo”; ma se tacciono o se si controllano allora nella nostra considerazione assurgono alla dignità della dignità. In ogni caso li valutiamo come attori dello spettacolo, per la loro interpretazione della parte; non ci accorgiamo di quanto ciò nuoccia alla nostra, di dignità.

Cecchettin invece non ha interpretato alcuna parte già assegnata: se l’è scritta da sé. Allora sarebbe opportuno che a scuola il suo testo venga letto non soltanto in ore di filosofia o di educazione civica ma anche in quelle di lettere. È infatti esemplare anche come modello di oratoria. Lo dico anche se temo che possa apparire quasi frivolo, perché nella nostra epoca per “parlare bene” si intende usare esclusivamente le parole consentite ed evitare tassativamente quelle messe al bando da autoproclamati tribunali dell’etica linguistica. In un senso un po’ più generale, e fondato, “parlare bene” ha invece pochissimo a che vedere con la scelta delle singole parole, che tutt’al più sono le pietre che necessitano di un disegno per poter servire a fare qualcosa che stia in piedi. Anche in campo retorico infatti l’architettura dei discorsi si fonda più sul disegno (inventio, dispositio, elocutio, actio, memoria) che sui materiali di costruzione.

Gino Cecchettin, dicono le cronache, è un ingegnere informatico e un imprenditore; con la sua azienda opera in contesti nazionali e internazionali. Del linguaggio ha una considerazione certo incline all’efficacia, ma non la persegue tramite scorciatoie e rifugge dai luoghi comuni come dagli effetti di enfasi. Le sue idee sulla sorte, così cruda, che il maschilismo più criminogeno ha riservato a sua figlia non risultano offuscate dal dolore. C’è anzi il caso che il dolore le abbia chiarite se, come ci indicava Carlo Emilio Gadda (l’Ingegnere per eccellenza della letteratura italiana), il dolore non è soltanto oggetto ma è anche soggetto di cognizione.

Rileggiamo il testo. Incorniciata tra un primo ritratto della figlia Giulia e lo struggente commiato finale da lei, troviamo innanzitutto una diagnosi:”Il femminicidio è spesso il risultato di una cultura che svaluta la vita delle donne, vittime proprio di coloro avrebbero dovuto amarle e invece sono state vessate, costrette a lunghi periodi di abusi fino a perdere completamente la loro libertà prima di perdere anche la vita. Come può accadere tutto questo? Come è potuto accadere a Giulia?”. Segue un’eziologia: “Ci sono tante responsabilità, ma quella educativa ci coinvolge tutti: famiglie, scuola, società civile, mondo dell’informazione…”. Non manca neppure la prognosi: l’indicazione del da farsi rivolta prima ai maschi, quindi ai genitori, quindi alla scuola, quindi ai media e, infine, alla politica e alle istituzioni.

Quanto ha di esemplare l’orazione di Cecchettin non sta allora nella sua capacità di commuovere, tantomeno in quella di esprimere dignità e resistenza a quell’abbattimento che un tale dolore sembra dover necessariamente provocare. Sta invece nell’inusuale capacità di individuare, indicare, argomentare le cause e gli effetti di quel dolore. Il suo discorso non parla di chi l’ha tenuto, della sua “dignità” e magari “lucidità”, non esibisce alcuna posa. Parla invece della crudeltà del mondo, questo, il nostro; trova una risposta alle domande terribili iniziali (“Come può accadere tutto questo? Come è potuto accadere a Giulia?”), espone la sua “cognizione” e ci richiede di sentircene coinvolti.

Così dovrebbero essere scritti i temi di scuola, anche quelli che parlano di vacanze spensierate, così gli editoriali: con lo stesso peso dato alle parole e la stessa inarcatura che consente loro di seguire un disegno e costruire un discorso. Chi sa parlare in questo modo, nella comunicazione pubblica italiana, a parte il presidente Sergio Mattarella? Quando si sentono discorsi altrettanto chiari, articolati e penetranti, nei mass-media? Gli standard delle scuole di comunicazione non arrivano a quel livello, formattano chiacchiere e poco più.

L’etica è nell’espressione del discorso, più e prima che nel significato delle singole parole. Fra le tante cose che con le sue parole Cecchettin ha detto ma anche compiuto si annovera l’esempio che ci ha dato su come l’esperienza possa trovare un’espressione tramite il linguaggio, senza bisogno di amplificazioni enfatiche, ma con articolata semplicità. In quella pioggia gelide le sue parole hanno saputo danzare.


Questa è Lapsus del 10 dicembre 2023, la rubrica di Stefano Bartezzaghi sulle parole del momento

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