Si scrive settembre, si legge Fichi: amati, dolci e poco capiti

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Settembre, tempo di fichi. È il mese in cui questo frutto, che poi botanicamente frutto non è, dà il suo meglio. Certo, a inizio estate ci sono i fioroni, belli grandi, e in autunno i cimaruoli, tipici delle zone molto calde. Ma adesso è il momento dei fòrniti, i fichi propriamente detti, che portano con sé la dolcezza del sole più caldo. Diffusa in tutti i paesi caldi, la pianta del fico punteggia soprattutto le nostre regioni meridionali, in particolare Puglia, Calabria e Campania. Si trova un po’ dappertutto: a ridosso delle spiagge, in campagna, in collina, in città. Non è raro vedere un albero crescere in mezzo alle rocce o direttamente dentro un vecchio muro: all’apparato radicale della pianta, infatti, basta poco per trovare acqua.

Per dare frutti, i fichi hanno bisogno di un processo di impollinazione che coinvolge piante maschio e piante femmina oltre all’aiuto di una piccola vespa che porta il polline dalle prime alle seconde; le piante coltivate sono però quasi tutte partenocarpiche e quindi non necessitano di impollinazione. Caratteristica comune è il tipico profumo che fa capire di essere vicino a un fico prima ancora di averlo visto. A quel punto basta alzare gli occhi e cercare i frutti maturi, perché non c’è niente di meglio che mangiarli appena colti, magari all’alba, dopo che la notte li ha naturalmente rinfrescati e la fuoriuscita del lattice, irritante per le mani, è ridotta. 


Il fico ha decine di varietà, alcune diffuse in maniera eterogenea, altre limitate a piccoli areali. Purtroppo è facilmente deperibile, una volta staccato dalla pianta tende a cambiare velocemente consistenza e a inacidirsi; in più la sua delicatezza mal sopporta il trasporto dalla pianta ai banchi del mercato. È anche questa la ragione che ne ha sempre fatto un frutto ideale per l’essicazione, il modo migliore per preservare la sua ricchezza di carboidrati. A tavola non è mai stato relegato al solo ruolo di fine pasto. Basti pensare all’espressione “Mica pizza e fichi!”, che richiama un pasto povero tipico, secondo alcuni, addirittura dell’epoca romana. E che proprio a Roma trova nel vulcanico Stefano Callegari uno straordinario interprete. Da Sbanco proprio in questi giorni si trova in carta la Cilentana, omaggio a un territorio ricchissimo da cui provengono ricotta di bufala, miele di agrumi, soppressata di Gioi e fichi: una pizza in cui il dolce e il salato si sposano in un susseguirsi di morsi golosi, lasciando ad entrambi il ruolo da protagonista, senza che uno prevalga sull’altro.

Altro abbinamento tradizionale, specialmente in Francia, è quello con il foie gras. Anche in questo caso le radici risalgono forse all’impero romano come lascia pensare Apicio, che racconta di animali nutriti con i fichi proprio per renderne più prelibato il fegato. Secondo alcuni linguisti, addirittura, il fegato, inizialmente chiamato in latino iecur, divenne poi iecur ficàtum (fegato riempito di fichi) e infine semplicemente ficàtum. Questioni etimologiche a parte, è certo che i due alimenti si sposano a meraviglia, con il frutto che può essere utilizzato al naturale oppure leggermente caramellato o ridotto in composta. In Italia rispondiamo con la classicità popolare di prosciutto e fichi accompagnato da focaccia o pane casareccio, con varianti di ogni genere (con aggiunta di pecorino più o meno stagionato, capocollo al posto del prosciutto, fico chiaro o scuro, con o senza buccia).


Il fico non si usa in cucina solamente quando è maturo. A Magliano Sabina la chef Laura Marciani, del Ristorante degli Angeli, cucina i ficoccetti, cioè i fichi appena spuntati sulla pianta, ancora totalmente acerbi. Un’antica ricetta delle campagne sabine che può essere realizzata solo per un brevissimo periodo, una ventina di giorni ad Aprile. I ficoccetti vengono spaccati a metà e saltati in padella con aglio e olio, a volte anche con l’aggiunta di asparagi selvatici. Il preparato può essere utilizzato per una squisita frittata oppure per condire gli strozzapreti, che poi sono arricchiti da una grattugiata di pecorino semi stagionato. Anche le foglie del fico sono utilizzate in cucina, ad esempio per gli involtini di riso, di carne o di verdura piuttosto comuni tra Grecia, Turchia e Medio Oriente, oppure impiegate nella stagionatura dei formaggi, specialmente pecorini di produzione umbra e toscana. Ma recentemente è stato Mauro Uliassi, chef tra i più grandi del Paese, a nobilitarle con un utilizzo davvero sorprendente. Dietro al piatto dal nome più semplice, pasta al pomodoro, si nascondono anni di lavoro per cercare di carpire il profumo dei raspi, quello che si sente, inconfondibile, entrando in un orto e che fatalmente svanisce nel momento in cui quei pomodori arrivano a tavola. La soluzione al rebus l’ha finalmente suggerita Hilde Soliani, artista dell’olfatto e del gusto, invitando lo chef a trovare quelle stesse molecole odorose in altre piante. E così Uliassi arriva alle foglie giovanissime di fico che mette in infusione nel burro, in un bagnomaria tenuto a sessanta gradi. Con quel burro condisce la pasta, e poi sopra, senza bisogno di mantecare, ci appoggia i pomodori vesuviani, appassiti in forno a bassa temperatura e poi setacciati per ottenere una polpa setosa e carica di gusto. Al momento dell’assaggio tutto torna, il pomodoro e la sua pianta si ricongiungono in un solo boccone, e ancor prima nell’effluvio che arriva dal piatto.

La frutta in cucina, oltre il “prosciutto e melone” c’è molto di più

La stessa idea di mettere tutta una pianta in un solo piatto l’ha avuta Federico Cari, pastry chef del ristorante Luigi Lepore di Lamezia Terme, locale che coniuga al meglio territorio e fine dining dove viene proposta la “scirubetta” con gelato di foglie di fico e mosto cotto di fichi. Quest’ultimo è uno sciroppo molto denso,  ottenuto dalla bollitura dei frutti maturi: il liquido che ne risulta viene filtrato e ridotto fino a ottenere una consistenza e una dolcezza che ricorda appunto quella del mosto cotto (di vino). La “scirubetta” è invece la granita dei poveri, che nelle montagne calabresi si prepara utilizzando la neve. Ovviamente Cari, che ad agosto la neve proprio non riesce a trovarla, prepara una classica granita a partire da un infuso di foglie di fico che poi arricchisce con il mosto cotto di fichi. Anche il gelato prevede un’infusione, questa volta in latte e panna (circa dodici ore a sessanta gradi). Il risultato finale racconta di aromi vegetali, note amare, freschezza, dolcezza appena accennata: un pre dessert perfetto per la sua capacità di pulire il palato e predisporlo alla parte finale del pranzo.

Il fico è protagonista anche di sorbetti e granite. In quest’ultimo caso tappa obbligata in Sicilia, al Bambar di Taormina oppure da Alfredo, nella splendida isola di Salina. Per i sorbetti, invece, non deludono né la scuola romana, ad esempio Fata Morgana, né quella milanese, come nel caso dei fichi neri pugliesi di Gnomo Gelato. Nella pasticceria classica, invece, i frutti freschi hanno spazio più come elemento decorativo che come veri e propri protagonisti dei dessert, dove invece troviamo spesso i fichi secchi. In inverno apriremo anche questo capitolo, per il momento godiamoci  gli ultimi scampoli d’estate.

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