Come Orbán divenne il “mini-Putin dei Carpazi”

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KIEV – A ottobre Viktor Orbán è stato il primo leader occidentale a stringergli la mano, quando su Vladimir Putin pendeva già un mandato d’arresto internazionale per crimini di guerra in Ucraina. E anche se le bombe russe cadono notte e giorno sul Paese di Volodymyr Zelensky, l’autocrate ungherese non ha mancato occasione di dimostrare la sua incrollabile lealtà al Cremlino. Gli undici pacchetti di sanzioni europee contro Mosca sono stati un continuo supplizio causa obiezioni o veti espliciti arrivati sempre da lui, l’ormai fiero cavallo di Troia del Cremlino in Europa.

Il mini-Putin dei Carpazi, com’è definito ormai anche in patria, sorride sempre beato, nelle foto con Putin. E finché il democristiano Manfred Weber, il lobbista principale di Giorgia Meloni in Europa, l’uomo che vorrebbe spingere la premier italiana nelle braccia dei Popolari europei, non le ha consigliato vivamente di evitarlo, anche Giorgia Meloni adorava farsi fotografare, sorridente, con Orbán. Quello di Weber è un consiglio che la leader di Fratelli d’Italia ha seguito anche per un altro motivo: con lei l’Italia ha ereditato la linea di sostegno adamantina all’Ucraina già decisa da Mario Draghi, opposta a quella dell’Ungheria. Ma per anni i rapporti tra i postfascisti italiani e l’autocrate magiaro sono stati simbiotici.

Quando era ancora all’opposizione, Meloni usava le stesse identiche parole d’ordine di Orbán. Delirava sulla “sostituzione etnica” orchestrata da Soros in Europa, tuonava “no all’ideologia lgbt” ai raduni dei neofranchisti di Vox, chiedeva improbabili “blocchi navali” contro i migranti e si scagliava contro l’Europa, rea di rubare sovranità agli Stati (lei forse direbbe: alle nazioni). E ripeteva i mantra ultracristiani di organizzazioni antiabortiste e omofobe come il “Congresso mondiale delle famiglie”, dove la destra magiara e quella italiana si sono incrociate sempre, negli ultimi due decenni.

Non da oggi, però, il premier ungherese è invece il più fedele alleato del Cremlino in Occidente. Ed è riuscito nell’impresa di trasformare Putin o nel convitato di pietra del cruciale Consiglio europeo di queste ore che deciderà il futuro di Kiev. Ma il suo completo asservimento a Mosca non impensierisce solo l’Unione europea. Angoscia anche la Nato.

Sempre a ottobre, l’ambasciatore americano a Budapest, David Pressman, ha detto esplicitamente che il rapporto “sempre più stretto” tra Orbán e Putin solleva “problemi di sicurezza” per l’Alleanza atlantica. Difficile condividere analisi e strategie riservate con un alleato che spiffera potenzialmente tutto al nemico numero uno della Nato. A questo si aggiungono i gravissimi scandali che hanno terremotato ripetutamente il ministero degli Esteri magiaro, che secondo le inchieste dei rari giornalisti indipendenti sopravvissuti all’autocrazia orbaniana ha i computer infestati di spyware russi.

Il rapporto tra Orbán e Putin è antico, risale almeno al 2009, quando il capo del Cremlino colse il potenziale del giovane capo di un partito populista che stava raccogliendo enormi consensi nel suo Paese, che era già stato tra i premier più giovani della storia ungherese e si preparava a stravincere le elezioni dell’anno successivo. Putin lo invitò a Mosca al congresso del suo partito e ci parlò a quattr’occhi. Nel 2010, quando divenne premier, Orbán annunciò subito una strategia distensiva verso Mosca, la “Eastern Opening”, la politica dell’”apertura a Est”. Putin lo aveva già conquistato.

Da allora, il premier magiaro ha scimmiottato Mosca nella guerra senza quartiere contro le Ong e George Soros, contro la comunità Lgbt, i migranti e contro qualsiasi avversario politico. E, imitando sempre il suo idolo, Orbán ha cementato intorno a sé un cerchio magico di oligarchi che ha arricchito e legato al guinzaglio. Il premier immarcescibile dell’Ungheria ha replicato il modello autocratico di Putin a tal punto da attirarsi le condanne di tutte le istituzioni europee e il blocco dei fondi comunitari causa violazioni dello stato di diritto e una corruzione ormai endemica.

Il Parlamento europeo ha concluso nel 2019 che l’Ungheria “non è più una democrazia”, nonostante si voti. Un po’ come la Russia. E gli unici due partiti che si sono opposti a questa ferma condanna di un Paese che ha ormai annullato gli spazi per l’opposizione, anzitutto nell’informazione pubblica, sono stati la Lega e Fratelli d’Italia. Così come il partito di Meloni ha preso le difese di Orbán quando l’Europa ha condannato la micidiale legge ungherese del 2021 che vieta, di fatto, di parlare di omosessualità pubblicamente. Pena multe salatissime e il carcere.

Qualsiasi iniziativa abbia preso l’Unione europea in questi anni per condannare e sanzionare le sistematiche violazioni dello stato di diritto da parte di Budapest, si è trovata Fratelli d’Italia contro. Non c’è mai stata una parola di condanna di Meloni quando Orbán ha occupato la tv e la radio pubblica con i suoi uomini, ha smantellato il sistema giudiziario, ha fatto comprare dai suoi oligarchi i giornali e siti web che rimanevano ancora indipendenti, ha represso le minoranze come i Rom e costruito un muro alla frontiera. Anzi, il modello liberticida di Budapest, a giudicare dal comportamento in sede europea, ma anche da alcune mosse intraprese da quando è diventata premier, sembra un’ispirazione, per Meloni.

Da tredici anni, l’Ungheria è un paese governato da un uomo solo che con il suo partito, Fidesz, ha permeato ogni aspetto della vita pubblica e privata. Non meraviglia che la grande filosofa Agnes Heller lo abbia sempre definito un “tiranno”. Ma dal 2010, Orbán ha anche fatto ponti d’oro alle aziende russe.

Nel 2014, l’anno dell’annessione russa della Crimea, l’Ungheria ha sottoscritto un accordo miliardario con la russa Rosatom per ampliare la centrale nucleare Paks, affacciata sul Danubio. Con dodici miliardi di prestiti russi. E dopo l’invasione del 2022, mentre l’Europa riduceva la sua dipendenza dal gas dei giacimenti siberiani dal 40 al 10%, i flussi verso Budapest sono aumentati, grazie a nuovi accordi sottoscritti da Orbán con il grimaldello geopolitico di Putin, il colosso energetico Gazprom. Budapest dipende ancora per l’85% delle sue forniture di gas da Mosca.

Nel 2019, Orbán ha messo a segno un altro colpaccio che ha fatto cadere le mascelle a mezza Europa. La International Investment Bank (Iib), un relitto finanziario dell’era sovietica che elargisce fondi ai progetti cari ai politici, ha trasferito il suo quartier generale a Budapest. E oltre ai lussuosi uffici, Orbán ha regalato ai vertici della banca russa lo status di diplomatici. Liberi di circolare per l’Europa a stringere affari nonostante le sanzioni e le limitazioni ai visti russi. Solo le mostruose pressioni americane hanno convinto il premier magiaro nella primavera del 2023 a liberarsi della tana di spie russe.

E, a proposito di ‘barbe finte’: dall’inizio dell’invasione in Ucraina, l’Europa ha enormemente ridimensionato la presenza di diplomatici nelle ambasciate russe. La Germania, il Regno Unito e gli altri partner europei ne hanno rispediti a Mosca a decine. Solo a Budapest sono aumentati. I diplomatici russi accreditati erano 46 nel 2021. Nell’anno della guerra sono aumentati a 56.

A ottobre, dopo aver stretto la mano a Putin, Orbán si è sentito in dovere di dichiarare che “l’Ungheria non ha mai voluto scontrarsi con la Russia”. Come se qualcuno avesse avuto ancora dei dubbi.

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