Non c’è verità per Bruno Caccia, archiviati i sospetti sul killer del procuratore ucciso nel 1983

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È un sipario che si chiude dopo 40 anni. E rimangono così indelebili le ombre sulla pagina più nera e amara di Torino, quella dell’omicidio del procuratore Bruno Caccia: spettri e sospetti destinati a restare per sempre tali. È archiviata l’indagine a carico di Francesco D’Onofrio, a lungo indicato come uno dei possibili killer, sospettato, in particolare, di essere il secondo uomo a bordo della Fiat 128 verde sulla quale, il 26 giugno 1983, fuggirono gli assassini. Ma il suo non era l’ultimo nome iscritto nel registro degli indagati. C’era anche quello di Tommaso De Pace, altro personaggio legato alla ‘ndrangheta. Aleggiava su di lui il sospetto che fosse l’uomo che aveva fotografato con il teleobiettivo Caccia mentre usciva con il cane. Un vicino di casa l’aveva visto e aveva scattato una foto. Quell’immagine poi era stata consegnata al capo scorta del procuratore. Ma lui è deceduto e la foto è scomparsa.

Tre pagine firmate dal gip di Milano Mattia Fiorentini ripercorrono dubbi, intoppi, rivelazioni, congetture. E chiudono il caso per l’impossibilità, a distanza di 40 anni, di arrivare a una verità. Resta la condanna all’ergastolo del panettiere Rocco Schirripa. Resta che l’unico mandante fu il capoclan Domenico Belfiore, processato nel 1989. Ma il ruolo di D’Onofrio non può essere accertato oltre. Da un lato sono scaduti i termini di indagini (la procura generale di Milano avocò l’inchiesta nel 2018), dall’altro non possono essere utilizzati tutti gli accertamenti compiuti dopo quel termine («da individuarsi nel 24 gennaio 2019»). Pertanto «sono inutilizzabili» anche tutte le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia vibonese Andrea Mantella. «Indipendentemente dalla sua attendibilità», scrive il gip che spiega come nel primo interrogatorio del 17 novembre 2016 avesse dichiarato che D’Onofrio «non (gli aveva) parlato di magistrati che erano stati già uccisi», salvo poi riferire, 5 anni dopo, di essersi ricordato che invece aveva ammesso «durante un pranzo in Calabria, di avere ucciso il magistrato Bruno Caccia». Ma la giustizia non può servirsene, così come di quanto detto nell’interrogatorio del maggio 2019, in cui «riferiva che Carmelo Lo Bianco, durante il funerale di Michele Patania, gli aveva confidato che D’Onofrio si era “mangiato un giudice a Torino”». Tutte dichiarazioni «assunte dopo la scadenza del termine massimo biennale previsto per la conclusione delle indagini preliminari». E sotto accusa D’Onofrio c’è rimasto a lungo. «Si è finalmente conclusa questa vicenda che ha tenuto sulla testa di D’Onofrio la spada di Damocle del rischio di una condanna da ergastolo, per quasi 7 anni! Un processo giusto deve essere tale da evitare angosce per l’indagato che si trascinino inutilmente», ha commentato l’avvocato difensore Roberto Lamacchia.

Ex di Prima Linea, D’Onofrio militava attivamente con i Colp (Comunisti organizzati per la liberazione del proletariato): originario di Mileto, in provincia di Vibo Valentia, nel 1982 lavorava come tecnico di radiologia all’ospedale di Orbassano. Ma nel 1985 fu arrestato e condannato per banda armata. Nel 2007 fu indagato a Milano dalla pm Ilda Boccassini, e poi prosciolto, nell’inchiesta sulla costituzione delle nuove Brigate Rosse. Sette anni dopo gli fu attribuito il ruolo di fornitore di armi dalla Croazia nell’inchiesta Minotauro: accusa sempre respinta condannando «i metodi e le finalità» delle cosche. Sei anni fa fu condannato per un arsenale di armi e kalashnikov in realtà mai ritrovato) custodito per conto dei boss. Ora sta finendo di scontare, ai domiciliari, una condanna del 2003 per ricettazione.

Il 6 dicembre a Milano c’è stata l’udienza di opposizione alla richiesta di archiviazione, l’ultimo tentativo dei familiari del procuratore di andare ancora avanti. Ma il gip ha deciso: «Non sussistono altri riscontri negli atti d’indagine alle dichiarazioni rese da Domenico Agresta». Era stato lui, il pentito ragazzino, nato a Locri e cresciuto nel locale di Volpiano (Torino) all’ombra della ‘ndrina più potente degli anni Duemila (che aveva passato anni a raccogliere le confidenze nell’ambiente della malavita) il primo a fare il suo nome, legandolo a quello di Schirripa: «Quei due sono persone terribili, ne parlavano tutti, hanno commesso tanti omicidi» . Per il gip «non rilevano» i propositi vendicativi di D’Onofrio nei confronti di due magistrati di Torino. E non si può interrogare di nuovo Mantella «per la settima volta». Sarebbe inutile. Così come «qualsiasi riconoscimento fotografico, a distanza di 40 anni, non può fornire prove». Tanto meno la ricerca di chiarimenti sullo «scenario in cui era maturato l’omicidio del procuratore, o eventuali interferenze dei servizi segreti sullo svolgimento delle indagini». E dunque «non si ritiene che dopo 6 anni di indagine e una poderosa attività investigativa siano possibili ulteriori approfondimenti in grado di condurre a una ragionevole prognosi di condanna di Domenico D’Onofrio e di Tommaso De Pace per l’omicidio Caccia».

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