Patto di stabilità, se il governo va sulle barricate

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Linea dura sul rinnovo del Patto di Stabilità. Dopo che, nel convegno-flop dell’ultradestra a Firenze, Salvini ha dato libero sfogo al suo viscerale anti-europeismo, il governo ha deciso mostrare i muscoli a Bruxelles. Alla vigilia dell’incontro tra i responsabili finanziari della Ue che dovrebbero decidere la riforma del Patto, il ministro Giorgetti ha parlato di proposte «inaccettabili» per l’Italia e ha ricordato che, per riscrivere le regole europee sulla disciplina di bilancio, «è di fatto richiesta l’unanimità tra gli Stati membri». Se non si tratta di una esplicita minaccia di veto, ci si avvicina molto.

Giorgetti nega che il governo stia ricattando l’Europa legando la ratifica del Meccanismo europeo di stabilità (siamo rimasti l’ultimo Paese a doverlo fare) a concessioni sulla riforma del Patto. Ma poi si smentisce alludendo al fatto che «il presidente del Consiglio, non può prendere impegni che poi il Parlamento, in qualche modo, non ratifica o non intende ratificare, come avvenuto su altre vicende». Insomma, il governo si dice pronto ad andare sulle barricate pur di evitare regole che ritiene troppo penalizzanti per la spesa pubblica e che, a suo avviso, mortificherebbero le possibilità di crescita del Paese.

Si potrebbe discutere a lungo su quanto una simile preoccupazione sia legittima. Difendere gli investimenti è sacrosanto. Ma se a farlo è un governo che stenta a investire i miliardi che l’Europa gli ha già dato con il Pnrr, in cambio di riforme produttive che comunque non arrivano, il sospetto che si tratti di un alibi a cui i nostri partner europei daranno scarso credito appare concreto.

Ma il vero problema è che troppi dettagli della riforma che sarà discussa giovedì 7 e venerdì 8 dicembre a Bruxelles appaiono ancora vaghi. Troppe cifre del documento che la presidenza spagnola ha sottoposto alle delegazioni sono ancora incognite raffigurate da una “X”. Troppe variabili vengono, giustamente, affidate alla futura discrezionalità di decisioni prese caso per caso onde evitare eccessive rigidità nell’applicazione del Patto.

Il fuoco di sbarramento che Giorgetti ha dispiegato in Parlamento appare così una contromisura preventiva presa da un governo che, quando si parla di disciplina di bilancio, si sente comunque già sul banco degli imputati. Una scelta perfettamente in linea con il vittimismo che la presidente del Consiglio ha eletto a proprio vessillo. Non sappiamo ancora bene di cosa stiamo parlando, ma già ci dichiariamo perseguitati e discriminati da un’Europa che ci è comunque matrigna e ostile anche se, attraverso la Bce, si è accollata una grossa fetta del nostro astronomico debito pubblico.

E, allora, perché? Forse perché ci sono due logiche nel «fare la faccia feroce», come quella mostrata da Giorgetti in Parlamento. La prima punta a spaventare gli interlocutori esterni. In questo caso gli altri ministri finanziari e la Commissione di Bruxelles che dovranno decidere il tenore della riforma. Se questa fosse la logica di Giorgetti e del governo Meloni, sarebbe pateticamente ingenua. Mettere un veto effettivo ad un accordo sul nuovo Patto ci porterebbe solo a far rivivere il vecchio, che per noi sarebbe molto più duro.

La seconda logica è invece di «fare la faccia feroce» sul fronte esterno ma ad esclusivo uso e consumo del fronte interno. Meloni e Giorgetti sanno benissimo che, alla fine, dovranno cedere e accettare il compromesso che nascerà dall’intesa tra Francia e Germania senza che le recriminazioni italiane siano prese in seria considerazione.

Ma questo atteggiamento offrirà al governo due vantaggi. Il primo è che, avendo assunto una postura bellicosa, il governo potrà spacciare come vittorie sul campo alcuni risultati che appaiono già comunque acquisiti, come un allungamento del periodo di transizione da quattro a sette anni.

Il secondo è che potrà evitare la corresponsabilità politica di una riforma che ridurrà comunque i margini di spesa della maggioranza parlamentare, scaricando ogni colpa sulla solita Europa matrigna.

A ben vedere, tra l’anti-europeismo viscerale di Salvini e quello più sottile e manipolatore del duo Meloni-Giorgetti, la differenza è più di forma che di sostanza.

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