Fisher Stevens: “Justin Timberlake nel mio film? Non era la prima scelta”

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Mentre racconta Palmer, il suo nuovo film disponibile su Apple tv+, Fisher Stevens – attore, regista, produttore e scrittore americano – parla spesso dell’America di ieri e di quella di oggi; cerca il confronto, il parallelo, e si dice contento. Di più: si dice entusiasta. Non si dispera per la distribuzione streaming. Anzi, ripete, ne è felice. “In questo modo, ho un pubblico più grande”. Quando ha letto la sceneggiatura di Cheryl Guerriero, Stevens era alla ricerca di una nuova storia da raccontare. “E l’ho trovata immediatamente interessante. Perché Sam, il protagonista, mi ha ricordato mio nipote Max”.

Fisher Stevens e Justin Timberlake 

Siamo nel sud degli Stati Uniti, in Louisiana. Sam è un bambino che adora giocare con le bambole e vestirsi da principessa. Palmer, invece, è un ex-giocatore di football pieno di rimpianti, appena uscito di prigione. In qualche modo, suggerisce Stevens, finiscono per ritrovarsi e per creare una nuova famiglia. “All’epoca Trump era stato appena eletto. E la storia di questo film è ambientata proprio in quell’America che l’ha votato, dove le cose più importanti sono lo sport e la chiesa”.

Quanto tempo ha lavorato su questo film?
“Più di quattro anni. All’inizio avevamo trovato gli attori, ma non avevamo i soldi. Poi abbiamo trovati i soldi, ma gli attori non andavano più bene”.

Che cosa ha fatto, a quel punto?
“Ho mandato il copione all’agente di Leonardo DiCaprio; in quel periodo, stavamo lavorando a un documentario. Non avevo in mente nessuno in particolare, premetto. Nemmeno Leo. Cercavo consigli. Mi è stato segnalato Justin Timberlake. Se devo essere onesto, non l’avevo minimamente preso in considerazione”.

Ma?
“Ma non potevamo ancora iniziare a girare. Prima dovevamo trovare il bambino giusto. Eravamo tutti d’accordo su questo. Poi, per fortuna, abbiamo trovato Ryder Allen”.

Palmer e Sam non sono gli unici protagonisti.

“Volevo girare un film nel sud negli Stati Uniti, con le persone che ci abitano. Abbiamo provato a catturare l’essenza stessa della Louisiana”.

Cioè?
“Io vengo da New York e conosco da sempre Trump. Quando è stato eletto, sono rimasto scioccato. Girare questo film mi ha permesso di riscoprire l’America e di riavvicinarmi agli americani che l’avevano votato. Sono brave persone. Hanno le loro vite, i loro ideali. Durante le riprese, ci siamo trovati benissimo. Ma non condividevamo nessuna idea politica”.

Come mai avete deciso di fare uscire questo film adesso, in streaming?
“Stavamo lavorando al montaggio quando c’è stato il primo lockdown. Speravo di poter portare questo film nei festival, per presentarlo. Alla fine, però, l’abbiamo venduto a Apple tv+. Palmer, ora, è uscito anche in qualche cinema. E ha ricevuto molta attenzione”.

Le piattaforme streaming possono essere un aiuto, per questo tipo di storie?
“Assolutamente sì. Le persone di Apple con cui ho lavorato vengono dal mio stesso mondo; sanno benissimo di che cosa stiamo parlando. Ci tengono tanto quanto me”.

Essere un attore le è stato utile?
“Certo. Avevamo solo venticinque giorni per girare Palmer, e avevamo pochissimo tempo per provare. Ho scelto gli interpreti più veri, più credibili. Ho cercato di fotografare la realtà, con Palmer. Ho provato a dare a tutti un suggerimento, lasciando però totale libertà”.

In che modo?
“Non ho un grandissimo ruolo in Succession, la serie tv, ma mi sento parte del gruppo. Siamo un po’ come una compagnia teatrale. In questo film, volevo ricreare la stessa cosa: rendere tutti partecipi, tutti protagonisti”.

Joe Exotic in Tiger King 

Lei ha prodotto anche Tiger King di Netflix.
“Doveva essere una cosa completamente diversa, in un primo momento. Quando abbiamo scoperto Joe Exotic, quando abbiamo scoperto quel personaggio e il suo mondo, abbiamo dovuto cambiare ogni cosa. La pandemia, in un certo senso, ha aiutato questa serie. Non c’era altro da vedere”.

Secondo lei, ci sono troppi documentari, troppe docu-serie, in questo momento?
“Forse c’è il rischio di esagerare, di spingere troppo sull’acceleratore del dramma. Ma ci sono tantissimi documentari straordinari. L’importante è riuscire a trovare un equilibrio tra queste due cose, questi due filoni. I documentari come Tiger King e quelli, per esempio, di approfondimento e di denuncia. Ne abbiamo bisogno: soprattutto ora”.

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