Luigi Spina: “Grazie al Covid ho catturato l’anima di Pompei”

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Napoli. Si può fotografare l’anima? Luigi Spina ha provato a farlo a Pompei, aprendo cancelli e svelando angoli nascosti nella città sepolta dall’eruzione del Vesuvio nel 79 dopo Cristo. «La casa a Pompei è un inno alla vita» dice il fotografo che per lunghi mesi, nelle giornate del vuoto del Covid, ha potuto vivere un’esperienza unica tra le strade deserte degli Scavi, entrando nelle antiche domus in punta di piedi. Con rispetto, verrebbe da dire. E ha scattato una serie straordinaria di foto. Solo il vento a fargli compagnia, e la sua fotocamera Hasselblad H6D-100c fornitagli dalla casa produttrice con tanto di ottiche, la migliore per questo tipo di immagini. Con lui Monica Romano, la sua compagna, unici abitanti per lunghe settimane di Pompei. Come canovaccio ha usato Pompei. Pitture e mosaici della Treccani. Aveva parlato del suo progetto con Massimo Osanna che lo incoraggiò, partendo dall’idea di un lavoro enciclopedico. «Volevo restituire un’atmosfera, la fragilità di Pompei, che è anche ricchezza» racconta Spina.

Ne è nato un libro di grande formato, 480 pagine, 4 chili di peso, stampa a sei colori: Interno pompeiano pubblicato a fine ottobre da 5 Continents Editions. Un volume già uscito in sei lingue grazie a coedizioni internazionali: per il mercato inglese con Thames&Hudson, per quello americano con Getty Museum, per i paesi di lingua tedesca con Elisabeth Sandmann Verlag e per la Spagna con La Fábrica, mentre l’edizione francese e italiana è delle casa editrice fondata da Eric Ghysels nel 2002. Novemila copie in tutto, già quasi esaurite in Germania e in Spagna. Le 274 fotografie riprodotte sono un’enciclopedia del bello. La luce straordinaria restituisce una città che sorprende per i colori e le sfumature. Sfogliando il libro è come se da un momento all’altro ti aspettassi di trovarci chi le abitava duemila anni fa. «Sono lo sponsor tecnico del volume, faccio l’editore senza finanziatori — racconta Ghysels — alla Buchmesse di Francoforte ho proposto l’opera e subito ho avuto l’ok del Getty e di Elisabeth Sandmann. Viene riconosciuto come il libro dell’anno a Parigi».

«Le foto aiutano a vedere meglio» spiega Spina. In quasi tre anni, da giugno 2020 fino a inizi 2023 ha scattato 1.450 immagini, anche se confida che «ci sono state giornate nelle qualo restavo in una domus a lungo senza farlo. È come se fossi entrato in sintonia con gli abitanti di duemila anni fa. Appena affrontavo una nuova casa cercavo il larario, l’altare domestico degli antichi, per una sorta di saluto. Confesso che mi sentivo più a casa a Pompei che nel mio appartamento in quei giorni…».

Il volume è arricchito dai testi del direttore del Parco archeologico, Gabriel Zuchtriegel, del direttore generale Musei statali, Massimo Osanna, dell’ordinario di archeologia classica all’università Vanvitelli, Carlo Rescigno, e del responsabile dell’archivio fotografico di Pompei, Giuseppe Scarpati. Le immagini sono presentate a tutta pagina, divise per otto Regio, i quartieri nei quali è stata divisa la città antica. Per ogni domus c’è una scheda scritta da Domenico Esposito del Deutsche Archäologische Institut di Roma.

Ecco la Casa di Paquio Proculo, nella Regio I, con gli splendidi pavimenti di epoca tardo-repubblicana. Le foto sono state tutte realizzate senza l’ausilio dell’illuminazione artificiale. Il momento dello scatto e il taglio sono stati dettati a Spina dalle condizioni atmosferiche. Si è fatto guidare dalla luce naturale, in un tempo sospeso. È un po’ come se il fotografo volesse liberarsi di tutti gli orpelli della modernità e immergersi nell’antico, esperienza che solo a Pompei e negli altri siti sepolti dal Vesuvio nel 79 dopo Cristo come Ercolano o Stabiae è possibile. Non possiamo dimenticare che gli “interni pompeiani” ci appaiono oggi quasi sempre privi di arredi, anche se sappiamo che in antico non c’era un ammasso di mobili: non avrebbe avuto senso far dipingere splendidi affreschi per ricoprirli con armadi o alti scaffali. Il gioco tra parete e pavimento è uno degli approcci preferiti di Luigi Spina, come mostrano le foto della Casa dell’Efebo o della sontuosa domus del Menandro. Ed è una delle chiavi di lettura dell’antico che il libro recupera. Il fotografo nato nel 1966 a Santa Maria Capua Vetere, l’antica Capua dell’anfiteatro di Spartacus, ha già dato prova di bravura ritraendo i capolavori del Museo archeologico nazionale di Napoli o le architetture del Foro Romano o, ancora, i gessi di Canova a Possagno.

A Pompei ha realizzato un corpus fotografico che ha toccato 145 abitazioni, anche se poi solo 62 sono confluite nel libro. «Quando ho visto le foto per la prima volta sul mio telefonino mi sono commosso — confida l’editore Eric Ghysels — mi sembravano spazi abitati. Lavorando con la luce naturale, Luigi Spina è stato capace di riempire le domus con l’animo degli abitanti. È un libro che non temo di definire epocale perché mai più si potrà fare una campagna di questo tipo, senza visitatori: fa vedere l’anima di Pompei. Anzi, per dirla tutta lo avrei intitolato L’anima di Pompei…».

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