La dottoressa che cura gli ostaggi rilasciati da Hamas: “Sono stati vittime di crudeli abusi sessuali”

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TEL AVIV — La dottoressa Noya Shilo si occupa di traumi all’ospedale di Sheba, poco fuori Tel Aviv, e si è presa l’incarico di accogliere trenta ostaggi israeliani subito dopo la liberazione nella Striscia di Gaza dopo 50 giorni di prigionia. Rientra nel suo ufficio, era andata a una finestra a vedere il sistema Iron Dome che distruggeva alcuni razzi sparati da Hamas, al giorno 66 di guerra. «Guardavo le intercettazioni nel cielo sopra casa mia, a casa ci sono i miei figli».

Che tipo di ostaggi le sono stati affidati?

«Un gruppo da trenta, nove bambini e ventuno adulti, io sono stata con gli adulti, alcuni molto adulti: da cinquanta fino a ottant’anni».

Come funziona il protocollo, che cosa si fa quando arriva qualcuno dopo 50 giorni a Gaza?

«Abbiamo creato in ospedale un ambiente speciale per loro. Nomi sulle porte, molti colori nelle stanze, cibo speciale, abbiamo portato loro lenzuola, coperte, pigiami, asciugamani e pantofole da casa in modo che si sentano il più possibile in un posto familiare. Abbiamo pensato a tutto, anche ai tagliaunghie. Il primo passo è stato un trattamento anti-pidocchi con una lozione, ce li avevano tutti. Erano tutti fragili».

Il danno più grave visto negli ostaggi? Forse nella psiche più che nei corpi?

«Ho visto danni significativi nei corpi. Due cose soprattutto. Uno, le ferite da proiettile ricevute il 7 ottobre durante il rapimento che non erano state trattate e si sono complicate. Due, molti di loro avevano coaguli di sangue nelle gambe e nei polmoni perché erano stati sempre fermi per un tempo così lungo. Inoltre erano malnutriti e disidratati, c’è chi ha perso venti chili».

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E traumi psicologici? Li abbiamo visti salutare i carcerieri, in quelle liberazioni coreografate con molta attenzione da Hamas.

«Quando sei nelle mani di Hamas fai quello che ti dice Hamas. La maggior parte di loro è stata tenuta isolata per più di 50 giorni, una pita di pane al giorno, niente medicine, niente cure per le ferite, niente luce del giorno. Hamas diceva loro che non c’era più Israele, che non esisteva più un posto dove tornare. Quando cercavamo di avvicinarli loro indietreggiavano d’istinto perché la loro fiducia nel mondo era andata in frantumi. Sono stata una settimana in ospedale senza andare a casa perché non volevo interrompere il legame di fiducia, altrimenti qualcun altro avrebbe dovuto ripartire da zero».

Come li avete avvicinati?

«Siamo dottori, siamo abituati a dire noi che cosa dev’essere fatto, ma in questo caso ci hanno detto: qui prenderete ordini dagli psicologi, sono loro a gestire la situazione. Per le prime due ore abbiamo semplicemente aspettato che stessero con le famiglie, non ci siamo avvicinati nemmeno per togliergli le giacche, abbiamo aspettato che fossero pronti. E gradualmente sono venute fuori storie orribili, il 7 ottobre i rapimenti sono stati molto violenti».

Ci sono stati stupri e abusi sessuali?

«Non c’è dubbio che sono stati compiuti crimini di natura sessuale il 7 ottobre. Come team medico eravamo sotto choc nel sentire ogni tipo di abuso immaginabile, le cose più brutali e crudeli uno possa immaginare, è stato davvero disumano e contro le persone più innocenti».

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E durante la prigionia?

«Non posso parlare di storie personali, perché ci sono i nomi di chi ho preso in cura, è la loro storia, raccontarla oppure no è una loro scelta».

Parlavano di Hamas e dei palestinesi?

«Una delle donne prima di essere rilasciata è stata portata per qualche giorno nell’ospedale di Khan Yunis per essere curata e mi ha detto che la situazione era terribile, con tanti feriti, tanti sfollati e tanta sofferenza. Questa è la gente che Hamas ha rapito, stuprato e ucciso».

Hanno curato gli ostaggi negli ospedali?

«Difficile per me parlare di cure e dottori, visto come hanno trattato o meglio non trattato le ferite. In modo intenzionale. Senza dubbio».

Cosa vuol dire?

«Se vuoi sistemare una frattura, la sistemi in modo che guarisca. Ma nessuna delle fratture è guarita».

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