Israele non c’è, la Palestina sì. La coppa d’Asia di calcio è (anche) una questione di geopolitica

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Una porta scorrevole sul mondo. E’ la Coppa d’Asia, la cui diciottesima edizione è in corso in Qatar. Una porta di uscita per chi l’ha vinta e poi ha dovuto cambiare universo calcistico, di entrata per chi è arrivato da lontano inserendosi in una cultura diametralmente opposta. Come l’Australia, che stanca di battere Tahiti e Vanuatu in Oceania, ma anche e soprattutto di prendere legnate negli spareggi mondiali contro una europea o una sudamericana, decise che era giunto il momento di guardare altrove. Quel che è certo, il torneo ha sempre risentito delle turbolenze politiche, belliche e sociali dell’area. Emblematica quanto mai attualissima è l’avventura della Palestina, ma anche l’immagine di due giornalisti siriani che dopo il passaggio agli ottavi (dove si sono fermati solo ai rigori contro l’Iran) non sono riusciti a fare una domanda al loro ct – l’ex hombre vertical dell’Inter Hector Cuper -, travolti da emozioni e lacrime.

Hector Cuper ex tecnico dell'Inter, oggi allena la nazionale siriana

La storia del torneo non è recente. La prima edizione si è svolta nel 1956: Europei e Coppa d’Africa ancora non esistevano, c’era solo – e da tanto – l’antichissima Coppa America. Bella vetrina insomma, per nazionali anche di una certa tradizione. Il Giappone detiene il record delle vittorie: 4, come le finali disputate e tutte vinte. L’ultima, quella del 2011, sotto la guida di Alberto Zaccheroni. Di finali ne ha giocate di più la Corea del Sud (6), solo che nonostante una presenza più o meno costante ai Mondiali e giocatori di un livello alto (citiamo gli attuali Son del Tottenham o l’ex Napoli Kim), è ferma alle vittorie delle due prime edizioni. Per invertire la rotta, i coreani si sono affidati a una vecchia conoscenza del campionato italiano come Jurgen Klinsmann, che tra alti e bassi per il momento sta andando. L’alto più recente, la vittoria ai rigori sull’Arabia Saudita di Roberto Mancini. Delusione non da poco per un paese che sta investendo tantissimo nel movimento e panchina traballante (ma per il momento salva) per il ct italiano, reo di essersene andato negli spogliatoi quando si stavano tirando i rigori decisivi.

Tifosi dell'Iran

Klinsmann, Mancio, nomi non comuni in un contesto calcistico con radici antiche. Del resto una asiatica, le Indie Orientali Olandesi (l’attuale Indonesia) era presente già ai mondiali del 1938 in Francia: il fatto che poi ne beccò 6 dalla fortissima Ungheria è un altro discorso. E una era già ai quarti di finale in Inghilterra nel 1966. L’Italia ne sa qualcosa, era infatti la Corea del Nord del celebre goleador dentista Pak Doo Ik (in realtà sembra non abbia mai curato un dente in vita sua) che spedì a casa tra valanghe di pomodorate gli azzurri di Edmondo Fabbri. Per rendere l’idea, l’Africa ai mondiali ci è arrivata solo nel 1970 ed ha scavallato il primo turno solo nel 1986, sempre con il Marocco.
Insomma, l’Asia ha tradizione e miti, anche se questi ultimi sono quasi totalmente sconosciuti in Europa. Tipo Lee Wai Tong, leggenda della nazionale cinese dagli anni Venti agli anni Quaranta, sia come giocatore (gli vengono attribuiti 1200 gol, dato onestamente difficile da verificare…) che come allenatore. La Cina di uno così avrebbe bisogno anche attualmente, visto che nonostante l’immenso bacino di potenziali calciatori ha sempre combinato poco. Il campione non c’è, e nemmeno quello di un tempo viene celebrato granché: il motivo è che dopo la guerra civile ebbe un ruolo importante nel calcio di Taipei, cosa tradizionalmente invisa a Pechino. Un personaggio che ha navigato anche in acque difficili, un po’ come tutta la Coppa d’Asia.

L'esultanza dei giocatori della nazionale palestinese

Prendiamo Israele. Vi ha partecipato fino al 1972, vincendo nel 1964 una edizione casalinga tra mille rinunce arabe. Il giocatore più famoso di quella squadra si chiamava Mordecai Spiegler, un sovietico emigrato da bambino in Israele che ebbe anche l’onore di giocare ai Cosmos New York con Pelé: a Messico 70 segnò il primo e unico gol nella storia israeliana ai mondiali. Incontrò anche l’Italia, finì 0-0 con le reti di Gigi Riva e Domenghini annullate per fuorigioco dal guardalinee etiope Tarekegn. Fatto celebre perché costò il posto di telecronista della nazionale a Nicolò Carosio per delle presunte frasi offensive verso Tarekegn che in realtà non furono mai pronunciate.

Cile-Urss, quella partita farsa nello stadio dei desaparecidos

Da oltre 50 anni Israele, che pure aveva incontrato nazionali come l’Iran (ma quello antecedente alla rivoluzione komeinista) non gioca la coppa per un semplice motivo. Dal 1974, con l’area mediorientale scossa dalla guerra del Kippur, il mondo arabo ha fatto fronte comune costringendo la nazionale ebraica a peregrinare per venti anni, giocando le qualificazioni mondiali (tra Oceania ed Europa, in quest’ultima entrerà poi in pianta stabile), ma non facendo nessun torneo continentale. Se Israele è da tempo fuori dai radar del calcio asiatico, la presenza della Palestina si fa invece sempre più costante. Tre edizioni disputate, in questa addirittura è arrivata la qualificazione agli ottavi, dove la squadra è stata eliminata dai padroni di casa del Qatar con un rigore di quelli un po’ così… Un presenza ovviamente gigantesca per tanti motivi. Perché tanti giocatori che potevano essere protagonisti in nazionale sono morti nei raid aerei israeliani. Perché altri, magari prima di scendere in campo, hanno ricevuto brutte notizie sui propri cari. E poi perché al vecchio stadio Gaza, lo Yarmouk (costruito oltre 70 anni fa quando a Gaza era sotto controllo egiziano), non si gioca più a pallone, visto che è diventato un campo di detenzione. Certo, saccheggiando in una retorica un po’ spiccia, sarebbe bello fantasticare di questi tempi su una partita Israele-Palestina. Sembra impossibile, certo. Ma in fondo lo sembrava pure una sfida tra Iraq-Iran dopo un conflitto che ha causato milioni di morti.

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E chissà che prima o poi a un mondiale, forse già nel 2026… In fondo Israele, nella corsa agli Europei del prossimo giugno, si è guadagnato un posto agli spareggi di marzo, mostrando competitività contro squadre di medio cabotaggio. E la Palestina è ancora in corsa, anche se ha il problema di dover giocare in campo neutro i suoi incontri casalinghi. Quello perso con l’Australia ad esempio è stato disputato in Kuwait, altra nazione che ha avuto il suo momento di gloria nella manifestazione: la vinse nel 1980 – prima e unica volta -, e sulla scia di quel successo riuscì a qualificarsi per il mondiale di Spagna di due anni dopo. Fece una figura discreta, persino un pareggio contro la Cecoslovacchia che era arrivata terza agli Europei in Italia. Eppure quella partecipazione è ricordata per la figura di Fahad Al-Ahmed Al-Jaber Al-Sabah, membro della famiglia reale, nonché presidente della federazione kuwaitiana. Durante la partita con la Francia, persa 4-1, Alain Giresse, il motorino del centrocampo transalpino, segnò una rete a difesa avversaria ferma, sembra per un fischio arrivato dalle tribune. E da quelle tribune lo sceicco scese in campo e incredibilmente convinse l’arbitro sovietico Stipar ad annullare il gol. Una storia che fece il giro del mondo ed alla quale Al-Sabah sopravvisse 8 anni. Fu ucciso il 2 agosto del 1990, il giorno in cui Saddam Hussein aveva deciso che il Kuwait dovesse diventare proprietà dell’Iraq.

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