C’era una volta il (Super) Santos. Dalla morte di Pelè alla retrocessione in B, l’anno nero della squadra che ha fatto sognare i boomers

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Il 14 aprile del 1912, mentre il Titanic era in rotta verso un iceberg a nord dell’Oceano Atlantico, molto più a sud tre signori amanti dello sport decisero di fondare il Santos, il club che avrebbe dettato legge in Brasile per tre decenni. Centoundici anni dopo, come una storia che si ripete sotto altre forme, l’inaffondabile Santos, mai finito in Serie B, si è inabissato. Uno dei club più famosi al mondo è sceso per la prima volta nella seconda divisione in una giornata piena di tristezza e candelotti lacrimogeni. I bianchi erano avanti di un punto rispetto al Vasco da Gama e due sopra il Bahia. Era uno scenario in apparenza privo di rischi: il Santos avrebbe persino potuto perdere, a patto che le altre due non avessero vinto. Sul risultato di 1-1, in casa, contro il Fortaleza, è arrivata la notizia del vantaggio del Vasco. Il Bahia stava già dilagando nella sua partita. Mancavano dieci minuti alla fine. I tifosi avevano capito che sarebbero retrocessi. I tifosi di calcio hanno un sesto senso, se ve lo state chiedendo. Poi al 96’ è arrivato il gol dell’1-2, firmato da Juan Martin Lucero. Sconfitta e addio. Mezz’ora dopo il fischio finale erano rimasti in tribuna infradito spaiati, bicchieri di carta, resti di magliette ridotte in cenere. Il gas lacrimogeno sparato dalla polizia per disperdere i tifosi infuriati aveva finito per bruciare alcune macchine. Il terreno di gioco era maculato di oggetti che misuravano il grado di intensità della rabbia. Fuori la gente urlava “Vergognatevi”. Queste scene non sono così irrituali nel calcio brasiliano. La differenza è che per il Santos la Serie B era una dimensione sconosciuta.

Ma in Brasile vedere solo il pallone è come non vedere niente. La religione, il Carnevale e il calcio formano la Santa Trinità in una terra in cui il pallone ha preso molto dalla religione, ma anche viceversa: negli anni ’90 il Maracanà ospitava messe per distese di fedeli. E poi gli incantesimi, la dimensione misterica che avvolge tutto, da Exu, divinità avara e irascibile del Condomblé, la religione afro-brasiliana, alle rane seppellite sotto l’erba da gioco per guadagnarsi il favore divino. Il Santos – nome preso dalla città, l’antico Porto di tutti i Santi – è pienamente al centro di questo immenso luogo di culto che è il Brasile. Quando parlano di calcio usano sempre il superlativo assoluto. Fino a un anno fa il dramma più dramma di tutti era stata la morte di un altro inaffondabile, Edson Arantes do Nascimento, Pelè, il giocatore per cui il Santos era conosciuto al mondo, scomparso il 29 dicembre dell’anno scorso a 82 anni. Dopo una serie di ricoveri e resurrezioni, sembrava essere diventato immortale. La retrocessione della squadra adesso sembra una conseguenza dell’onda lunga cominciata da quel lutto, preceduto dall’altro affronto insopportabile: la vittoria dell’Argentina ai Mondiali. Qualcuno ha pensato di andare a cercare le rane seppellite sotto l’erba per vedere se c’erano ancora. Dicono che una fosse scomparsa alla vigilia dell’ultima partita del Santos.

Cile-Urss, quella partita farsa nello stadio dei desaparecidos

La zona attorno allo stadio di Vila Belmiro è il paradigma di cosa sia la vita in certi posti: case basse, strade sconnesse, bambini che giocano a pallone e l’estrema facilità di essere travolti da un’auto che sbuca all’improvviso dal nulla. Il corpo di Pelé è stato seppellito a dieci minuti da qui. Il Santos, vincitore di 17 trofei, non è tra i più forti del Brasile – viene dietro Palmeiras, Flamengo e Sao Paulo – ma è tra i più amati e conosciuti proprio grazie a Pelé: è stato durante la sua epopea che il club ha vinto due coppe intercontinentali, due coppe Libertadores, l’equivalente della Champions League del Sudamerica, e sei campionati brasiliani, di cui cinque tra il ’61 e il ’65. Pelé ha vinto i mondiali nel ’58, ’62’ e ’70. Il club era talmente famoso da aver inaugurato la moda dei tour mondiali. Era andato a Bangkok, Boston, Port-au-Prince. Tutti volevano vedere il re del football, i bambini sognavano di addormentarsi avvolti da una maglietta bianca. C’era Pelé, certo, ma anche Pepe, Zito, Coutinho, Clodoaldo, Carlos Alberto, Mauro Ramos, sette dei ventidue campioni del mondo nel ’62 giocavano a Vila Belmiro. Quel trionfo ispirò la nascita di un pallone arancione e nero diventato oggetto di culto dei boomers: il pallone Super Santos.

I funerali di Pelè nello stadio del Santos   2023 Getty Images

Dopo la morte di O Rei, la storia del Santos è stata segnata da un lento avvicinarsi al baratro, come se con Pelé se ne fosse andata per sempre una certa sacralità. Pepe, altra leggenda del club, ha scritto su Instagram: “Pensavo che gli dei del calcio ci avrebbero protetto”. Lo pensavano tutti, ma la vita aveva già preso un’altra direzione. La storia recente era stata fatta da Robinho, Neymar, Rodrygo, ma tutta la tradizione d’elite è apparsa inutile davanti al Fortaleza, in quella partita definita un “crimine contro la tradizione del calcio”. Ma il vero reato, dicono adesso i tifosi, è stato affidare la guida del club al presidente Andres Rueda, un imprenditore e informatico di 66 anni che ha gestito tutto con idee confuse, scoppi d’ira, epurazioni. Pensava che il calcio si potesse fare con gli algoritmi. Ha sbagliato rotta fin da subito, ma non sono stati colti i segnali. Nel 2021 e nel 2022 la squadra era finita a metà classifica, e dopo aver cambiato quattro allenatori. Oldair Hellman è stato il primo a franare, dopo l’eliminazione dalla Copa do Brasil e dalla Copa Sudamericana. Paulo Turra ha provato a instaurare disciplina ma la squadra gli ha girato le spalle. Diego Agurirre, che gli ha preso il posto, è durato appena cinque partite. Nel mercato estivo sono stati fatti ventuno acquisti. Solo tre erano in campo nella sfida decisiva. Due giovani talenti, Angelo Gabriel e Deivid Washington, se ne sono andati al Chelsea. Gli altri erano “mezzoni”, galleggiavano nella media. Così nelle prime diciannove partite sono stati fatti diciotto punti. Promosso Marcelo Fernandes, il vice allenatore e quarto della serie, c’era stata una reazione ma è durata poco. La squadra è precipitata nella depressione che l’ha portata a concludere il campionato al 17° posto su venti. Retrocedevano le ultime quattro. Il presidente Rueda è stato mandato via, il suo mandato scadeva la settimana scorsa.

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Il punto è capire se il Santos avrà la forza per risalire subito: è appesantita dai debiti, che hanno raggiunto i 142 milioni di dollari. L’accademia, una volta vanto del club, non produce più giocatori, e se li produce se ne vanno via subito, portati via da avidi agenti. Le strutture sono vecchie, gli sponsor latitano. Agli occhi dei tifosi, solo una cosa può apparire peggiore della retrocessione: vedere il Santos languire in B non un anno, ma due, tre. Allora serviranno preghiere a Nostra Signora dell’Apparizione e nuove rane da seppellire. L’unica consolazione, direbbe il giornalista Juca Kfouri, è che almeno Pelé non è in giro per vedere tutto questo. Ma considerato che parliamo del Brasile e della squadra di Ognissanti, non ne saremmo così certi.
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