Ci vuole orecchio, il privilegio di ascoltare l’egoismo di Loredana Bertè

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Non vedere le canzoni ma ascoltarle solo per radio si è rivelato un privilegio: non si è assistito a un triplice omicidio. Ovvero, in un colpo solo, alla character assassination (assassinio della reputazione) de Il ballo del qua qua, della cara memoria di Romina e Al Bano e di un intontito John Travolta.

Il solo ascolto consente ulteriori lussi, come cogliere alcune buone partiture musicali (quelle di Irama e di Mahmood) e alcuni superbi strappi melodici (Loredana Bertè). E di percepire una grande novità. Come suggerito da Claudia Ferranti tutte le canzoni raccontano pene d’amore. Non è il Festival dell’Unità ma il Festival della Croce Rossa: sofferenza, macerazione, lutto sentimentale.

Quasi mezzo secolo fa Francesco Guccini cantava: «Ma pensa se le canzonette me le recensisse Roland Barthes». Lo diceva con ironia perché sapeva che era meglio per tutti che Barthes si dedicasse ad altro. E, infatti, che cosa avrebbe mai potuto dire il semiologo francese di fronte a versi come: «Se avessi un telecomando / Non ti cambierei mai» (Emma); «Nessuno resta per sempre tranne i tattoo sulla pelle» (La Sad).

Il linguaggio è simil-giovanile (se non infantile) e allo stesso tempo pretenzioso e presuntuoso. Meglio, molto meglio, il ribaldo egotismo di Bertè (74 anni il prossimo settembre): io mi perdono da sola.

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