Diario da Gaza – La sfida di soppravvivere a Rafah: schiacciati tra la violenza di Hamas e la crudeltà dell’esercito israeliano

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RAFAH — Schiacciati gli uni sugli altri in questo misero lembo di terra sovraffollato a Sud della Striscia di Gaza, sopravviviamo incollati alle radio e i nostri umori, speranze, sentimenti sono interamente determinati dalle notizie che arrivano da fuori. Non sono mai buone. Speravamo infatti nei negoziati fra Hamas e Israele. E invece l’accordo non si trova. Anche l’ennesima missione del Segretario di stato americano Antony Blinken è fallita. E qui si continua a morire. Tutte le volte che la gente s’incontra si ripete: «Speriamo di essere vivi domani». Ben sapendo che le possibilità di sopravvivere si fanno ogni giorno più esili. E ciò che ci dà speranza al mattino, la sera ci delude. Andiamo a letto sfiniti.

Ormai la gente se la prende apertamente con Hamas: «Non devono restare oltre» sento dire a tanti. «Con la loro violenza e intransigenza hanno sbagliato» ripetono. Ma allo stesso tempo maledicono anche l’esercito israeliano: lo chiamano “spietato”, “crudele”, perfino “sadico” per come continua a portare avanti la sua vendetta contro una comunità ormai stremata.

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Nessuno fuori di qui può capire, immedesimarsi nell’orrore quotidiano che ci flagella. Tutto è distrutto: case, vite, famiglie, i nostri sogni. Ricordi e risparmi sono in cenere. Ogni giorno è peggio dell’altro. Eppure, dobbiamo comunque trovare in noi l’energia per resistere e dare forza e sollievo alle persone care: nella forma di calore umano. Ma anche in quella pratica di acqua e cibo. È sempre più difficile. Nelle ultime due notti le bombe sono cadute qui a Rafah: hanno colpito il quartiere Al Saudi, a Ovest della città, dove sono accampati i più disperati perché è il più vicino ai magazzini dell’Unrwa. Sono morti in 14 compresi diversi bambini.

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E in una città dove si muore di sete a essere colpito è stato anche un camion-cisterna pieno d’acqua potabile che così, invece di essere distribuita si è sprecata per innaffiare il cemento.

Non basta. Gli israeliani continuano a dire di voler avviare operazioni militari anche qui. Non è più una voce ma un’atroce certezza. L’idea di perdere anche Rafah ci sconvolge. Non solo perché se i carri armati arrivano fin qui ai sopravvissuti non resterà che accamparsi sulla spiaggia in preda alle intemperie. Ma perché se verrà distrutta anche l’ultima città della Striscia, vorrà dire che Gaza è davvero finita. Intanto perché sarà impossibile procurarsi cibo e cure mediche: visto che anche se allo stremo, almeno oggi un minimo di infrastrutture ancora resistono e sono l’unica rete che ci permette ancora di sopravvivere in maniera civile. E poi se perdiamo anche Rafah vorrà dire che l’intera storia dei palestinesi di Gaza sarà stata rasa al suolo.

Unica città finora risparmiata dai bombardamenti pesanti, se dovesse essere distrutta vorrebbe dire che più nulla della nostra cultura è sopravvissuta quaggiù. Ma siamo così stremati che quasi non importa. Vogliamo vivere e questo, temo, sarà possibile solo andando via da qui.

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