Sentiamoci tutti coinvolti

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Il discorso del padre di Giulia Cecchettin al funerale della figlia è l’ultima tessera che ci viene consegnata per comporre il disegno di quello che è accaduto. Che individua il contesto, la specificità, le ragioni per cui ci ha così profondamente toccato. L’abbiamo sentita subito come una vicenda diversa e non solo perché la vittima e l’assassino erano così giovani da rabbrividire. Abbiamo ascoltato gli appelli e condiviso immediatamente l’attesa angosciosa, trattenendo il fiato, confidando in un ritorno che si faceva ogni ora più improbabile. Trattenendo quel tremendo “noi lo sapevamo già” che alla fine ci è quasi scappato di bocca. Noi chi? Noi che ascoltiamo questa terribile litania di nomi femminili, questa catena di morti legate a un’unico movente: essere donna. E la solita inutile conta: sono più o meno che in un qualsiasi altro paese d’Europa, dov’è che i femminicidi, aumentano, dove diminuiscono? Come se una donna uccisa ogni due giorni o ogni tre facesse la differenza. Gli uomini uccidono le donne con una frequenza inaccettabile, questo dovrebbe bastare per gridare tutti insieme. E invece no, non è bastato fino ad ora, fino all’assassinio di Giulia Cecchettin. Poi c’è stata la manifestazione del 25 novembre. Una folla inaspettata, giovani e adulti, uomini e donne. Gente che forse a una manifestazione non c’era mai stata e non sapeva neanche bene come comportarsi. Ci siamo andati tutti, perché? Ce lo siamo chiesto parlando coi maschi, specie i più giovani. Ho pianto, non ci dormo, non me ne faccio una ragione, dicono in molti. E infine le parole della sorella, Elena Cecchettin. Con quel modo efficace di sfilare il delitto dalla dimensione individuale per tirarcelo, giustamente, addosso come una questione politica e culturale che non siamo ancora stati capaci di affrontare. Aveva appena perso l’amata sorella e ha detto guardiamoci, ragioniamo, perché c’è qualcosa che non va. A quelle parole fa eco il discorso, perfetto, del padre. “Ci ha travolto una tempesta terribile, e questa pioggia di dolore sembra non finire mai, ci siamo bagnati, infreddoliti”… inizia.

Il Nobel Parisi: “Giulia uccisa come Ipazia. Tutte e due vittime del patriarcato”

E parla un po’ anche di noi. Che alla morte di Giulia Cecchettin abbiamo sentito di dover reagire stringendoci l’uno all’altra, riattaccando in fretta i lembi della ferita prima che da lì sanguinasse tutto quello che abbiamo conquistato. Non può essere. “La vita di Giulia, la mia Giulia, ci è stata sottratta in modo crudele, ma la sua morte, può anzi DEVE essere il punto di svolta per porre fine alla terribile piaga della violenza sulle donne”. La morte di Giulia Cecchettin è un confine: lo abbiamo oltrepassato, non può succedere mai più. Pena la fine di quello che siamo, il rispetto tra noi, la convivenza civile. Ma come si torna indietro? Qualche giorno fa è morta Marisa Rodano, partigiana, fondatrice dell’Udi (Unione donne italiane) e prima donna a ricoprire, nel 1963, la carica di vice presidente della Camera. Da sempre in politica, ha scritto un saggio intitolato Memorie di una che c’era, lo ha pubblicato Il Saggiatore. C’era nella vita di tutti noi, spendendosi giorno dopo giorno per ricucire le ferite, tenere insieme quei lembi quando si strappano, farle smettere di sanguinare. Esserci: questo ha chiesto il padre di Giulia Cecchettin. “Creiamo nelle nostre famiglie quel clima che favorisce un dialogo sereno perché diventi possibile educare i nostri figli al rispetto della sacralità di ogni persona, ad una sessualità libera da ogni possesso e all’amore vero che cerca solo il bene dell’altro”, ha detto. Non ha mai, mai, invocato la punizione, la cella della quale buttare le chiavi, la ghigliottina. E non perché l’assassino non debba essere giudicato, e condannato, ma perché nessuna forca cambierà la condizione in cui quel delitto è avvenuto. “In questo momento di dolore e tristezza, dobbiamo trovare la forza di reagire, di trasformare questa tragedia in una spinta per il cambiamento” ha detto. Il funerale è stato trasmesso in diretta televisiva. Ci si chiede oziosamente se questo abbia reso quella morte meno reale, se non abbia contribuito a propagandare un gesto violento, se non sarebbe stato meglio tacere. No, non sarebbe stato meglio. Perché come abbiamo ascoltato dalle parole del padre di Giulia Cecchettin, bisognare parlare, esserci, avere cura. Educare, discutere, ammettere. Bisogna essere insieme per venire a capo di questa mostruosità. Poco importa stabilire se il patriarcato è ancora vivo o se sia così pericoloso proprio perché agonizzante. “Perché da questo tipo di violenza che è solo apparentemente personale e insensata si esce soltanto sentendoci tutti coinvolti. Anche quando sarebbe facile sentirsi assolti.” Come cantava De André.

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