Fuoco amico sul premierato, Pera lo boccia: “Un pasticcio”. FdI: “La sua è un’autocritica”

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ROMA – In attesa del confronto fra Giorgia Meloni e i suoi due vice, Matteo Salvini e Antonio Tajani, che dovrebbe avvenire entro oggi, non viene dalle opposizioni il colpo più duro alla riforma della riforma: ovvero, la revisione del ddl sul premierato operata dalla stessa maggioranza che meno di tre mesi fa l’aveva varato in Cdm. A bocciare gli emendamenti partoriti dalle forze di governo a suon di litigi è uno degli esponenti di punta di Fratelli d’Italia: quel Marcello Pera — professore, filosofo e ministro berlusconiano — traslocato nel partito meloniano per dar lustro e prestigio a una classe dirigente altrimenti meno titolata.

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«Questo non è premierato, è solo un pasticcio, spero che i leader lo riscrivano» perché «siamo di fronte a un testo inaccettabile», è sbottato dopo aver letto le modifiche apportate. Così «confuso e mal scritto che nessuno riesce a capirlo», ha rincarato parlando con l’AdnKronos. Ce l’ha, in particolare, con la riformulazione della norma sul secondo premier, cosiddetta anti-ribaltone: «È un enorme passo indietro», chiosa. Anche perché già il capo del governo investito dal popolo «è un problema: cioè abbiamo un presidente “eletto” la domenica che il lunedì diventa presidente “incaricato”, cosa che nella Costituzione attuale non esiste». E non è neanche l’unico. Ancor più «indigeribile» sarebbe il meccanismo in base al quale il premier eletto deve essere sfiduciato “mediante mozione motivata da parte di una delle due Camere”. Ma «cos’è questa roba?», insiste Pera: «Come è pensabile che la maggioranza faccia una mozione motivata per sfiduciare il suo premier?».

In realtà una spiegazione c’è: ribattezzato “lodo Calderoli”, è frutto del braccio di ferro tra FdI e la Lega che lo ha proposto per bilanciare l’investitura diretta del premier attraverso un aumento del potere di contrattazione dei partiti della coalizione che lo ha sostenuto nelle urne. Meloni avrebbe preferito la formula del simul stabunt, simul cadent: ossia, in caso di sfiducia si torna alle urne. Ma alla fine, per uscire dallo stallo, la maggioranza ha raggiunto una mediazione che distingue due scenari diversi. Se il premier eletto viene sfiduciato “mediante mozione motivata”, quindi con una rottura della coalizione, può chiedere le elezioni anticipate al presidente della Repubblica che “emana il conseguente decreto”. Se invece non ottiene la fiducia posta su un qualsiasi provvedimento, non può chiedere il voto: cadrebbe lui, ma la legislatura andrebbe avanti e subentrerebbe un secondo premier, espresso dalla stessa coalizione. Un “lodo” sul quale si stanno però addensando i dubbi dei giuristi interpellati dal governo: nel nostro diritto costituzionale, infatti, esiste un solo tipo di sfiducia, indipendentemente da come viene votata.

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Perciò, conclude il senatore Pera, «voglio capire come ne escono» i tre leader chiamati a esprimersi sul nuovo testo. «Spero che lo correggano perché così com’è non è proprio digeribile». Parole urticanti che tuttavia non scalfiscono il presidente meloniano della commissione Affari Costituzionali. «Il professor Pera, che ha collaborato alla stesura degli emendamenti, forse la sua è un’autocritica. Lui è un filosofo e deve rispondere all’etica delle convinzioni», argomenta Alberto Balboni: «Noi politici, invece, all’etica della responsabilità, abbiamo un testo e su quello dobbiamo lavorare, non possiamo stravolgerlo. La verità è che lui ha sempre avuto riserve sull’elezione diretta del premier».

Come il centrosinistra, pronto alla battaglia. «Noi siamo contrari e presenteremo emendamenti che guardano al modello tedesco», annuncia il capogruppo pd in commissione Andrea Giorgis, «Se la destra fosse in buona fede tornerebbe indietro e discuterebbe con noi», attacca il dem Francesco Boccia. «Ma Meloni cerca il plebiscito su sé stessa, e noi a giocare sulla pelle delle istituzioni non ci stiamo».

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