“Interrogai Vittorio Emanuele per 5 ore Con la cimice in cella si tradì sul colpo di fucile in Corsica”

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Carcere di Potenza, 20 giugno 2006, qualche minuto dopo l’una del pomeriggio. L’interrogatorio è in corso da quasi tre ore. Fa caldo, la cancelliera batte sui tasti del computer. Quando si sospende per una breve pausa, il giudice accende una sigaretta e ne porge un’altra all’indagato. «Rimanemmo alcuni istanti in silenzio, fu un momento di grande umanità», ricorda Alberto Iannuzzi.

Oggi è il presidente reggente della Corte di Appello del capoluogo lucano, allora era il gip che, accogliendo la richiesta del pm Henry John Woodcock, aveva disposto l’arresto di Vittorio Emanuele di Savoia, l’erede della dinastia reale italiana, nell’ambito delle indagini su una presunta associazione per delinquere attiva nel mercato dei nulla osta rilasciati dai Monopoli per videopoker e gioco d’azzardo. Il principe, scomparso sabato all’età di 87 anni, rimase sette giorni in cella. Gli atti furono poi trasmessi a Roma dove, nel 2010, fu assolto “perché il fatto non sussiste”.

Fu una decisione sofferta quella di arrestare Vittorio Emanuele, giudice Iannuzzi?

«L’inchiesta coinvolgeva più persone. Nella mia carriera ho sempre cercato di valutare solo gli elementi a disposizione senza farmi condizionare dal nome o dal ruolo dell’indagato e, anche in quel caso, mi regolai allo stesso modo».

Aveva capito che la notizia avrebbe fatto il giro del mondo?

«Mi aspettavo che se ne sarebbe parlato, data la caratura del personaggio Vittorio Emanuele, ma il clamore mediatico fu addirittura superiore alle mie previsioni».

Il processo si sarebbe poi concluso con l’assoluzione. È ancora convinto di aver fatto bene ad arrestarlo?

«L’impianto accusatorio fu confermato nella fase cautelare dai giudici dell’impugnazione della Cassazione. I difensori rinunciarono persino all’istanza di Riesame. Non ho nulla da rimproverarmi».

L’interrogatorio come andò?

«Inizialmente, Vittorio Emanuele non voleva rispondere. Poi, dopo un lungo e sofferto colloquio con il suo difensore, cambiò idea. E andammo avanti per quasi cinque ore».

Come si sviluppò quel faccia a faccia?

«Era l’erede di Casa Savoia, ma devo riconoscere che fu estremamente rispettoso del ruolo del giudice. Non manifestò rabbia, né tracotanza. Mostrò un atteggiamento collaborativo, rispondendo a tutte le domande. In alcuni casi fu convincente, in altri meno, ma questo è ciò che accade sempre».

Le sembrava preoccupato?

«La mia sensazione fu che non si rendesse pienamente conto delle accuse. Temeva soprattutto per le ripercussioni che la vicenda avrebbe potuto avere in ambito familiare».

Il carcere gli pesava?

«Ci tenne a sottolineare di essere stato trattato bene e questo mi fece piacere».

Ma proprio in cella, senza sapere di essere intercettato, sostenne con un altro detenuto di aver “fregato” l’autorità giudiziaria francese che aveva escluso una sua responsabilità nella morte del 19enne Dirk Hamer, raggiunto da un proiettile di carabina nell’agosto del 1978 sull’isola di Cavallo.

«Fui io ad autorizzare le intercettazioni perché le ritenevamo utili alle nostre indagini. Rimasi turbato da quelle affermazioni, le trovai inquietanti. Qualche tempo dopo mi scrisse Birgit, la sorella del povero Hamer».

Che cosa le disse?

«Mi chiese di fare il possibile per riaprire il processo sulla morte del fratello. Era una storia drammatica, quel ragazzo era morto dopo mesi di sofferenze. Non potevo fare nulla, la legge non lo consente. Ma non ho mai dimenticato le parole della signora Birgit».

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