Depistaggio via D’Amelio, spunta un’intercettazione di Riina: il commissario La Barbera doveva essere ucciso

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CALTANISSETTA — «I Madonia erano confidenti dei servizi segreti — sussurrava Salvatore Riina, il capo dei capi, al compagno dell’ora d’aria, nel carcere milanese di Opera — e loro convincevano Riina a lasciare La Barbera, il commissario La Barbera, gli dicevano non lo dovete toccare». Un’intercettazione dell’8 novembre 2013 irrompe nel processo d’appello per il depistaggio delle indagini su via D’Amelio. Il pubblico ministero Maurizio Bonaccorso, applicato in procura generale, ha depositato un verbale che rilancia i misteri attorno ad Arnaldo La Barbera.

L’ex capo della squadra mobile di Palermo è morto nel 2002, ma in questo processo è una presenza costante, perché è ritenuto dall’accusa il gran regista del depistaggio che portò alla creazione del falso pentito Scarantino: esecutori dell’operazione sono considerati gli imputati a giudizio, il dirigente del gruppo di indagine sulle stragi, Mario Bò, e l’ex ispettore Fabrizio Mattei (per loro è scattata la prescrizione in primo grado), poi anche l’ex ispettore Michele Ribaudo (assolto dal tribunale). In primo grado, i giudici sono arrivati alla conclusione che La Barbera abbia agito perché voleva un risultato a tutti i costi, la procura della repubblica e la procura generale sostengono invece che il superpoliziotto di Palermo avrebbe voluto favorire Cosa nostra. Il riconoscimento di questa aggravante farebbe cadere la prescrizione per gli imputati.

Dunque, l’intercettazione di Riina, fatta dalla Dia nell’ambito dell’inchiesta Trattativa Stato-mafia. In carcere, il capo dei capi non si dava pace: «Ma poi come mai non lo hanno ucciso… non lo so, ma lo vorrei sapere perché non l’hanno ammazzato. Il poliziotto… carabiniere… ammazzare e non l’hanno ammazzato».

C’era un ordine di morte per Arnaldo La Barbera? Chi lo fermò? Per Riina, i responsabili sono i Madonia. Ma perché i boss di Resuttana volevano salvare il superpoliziotto?

Per muoversi in questa storia, bisogna ripartire dal 1996: si pente Francesco Onorato, confessa di essere stato il killer dell’eurodeputato Dc Salvo Lima e poi racconta che dopo la strage Falcone, Salvatore Biondino, uno dei capimafia più vicini a Riina, gli aveva dato un incarico ben preciso. «Devi pedinare il dottore La Barbera, che passa qualche giorno alla Perla del Golfo di Terrasini, per ucciderlo». Era il giugno 1992: Il killer si trasferì subito con moglie e figli nel residence. «Non sapevo ancora se colpirlo con un silenziatore attraverso la siepe della piscina. Oppure, buttando un camion di sabbia in strada, per bloccare la sua macchina». Poi, intanto, si era verificata la strage Borsellino: «E la scorta di La Barbera restava fissa al residence». Ma per quale ragione era scattata la condanna a morte? «C’era l’intenzione di vendicare quel ragazzo morto nella salone di bellezza, che era della zona di via Montalbo, una cosa che stava a cuore ai Galatolo dell’Acquasanta». A gennaio, La Barbera aveva ucciso un rapinatore nel corso di una rapina.

Onorato precisa: «In realtà, dell’omicidio del dottore La Barbera avevo sentito parlare alcuni anni prima. Ma all’epoca mi era stato detto che quel poliziotto interessava ai Madonia e non se n’era fatto nulla». Queste ultime dichiarazioni sono però rimaste abbastanza generiche, «prive di riscontro», hanno scritto i giudici della corte d’assise di Caltanissetta, che hanno celebrato il Borsellino quater. Così come «prive di riscontro» sono state definite le parole di un altro pentito, Vito Galatolo, che ha addirittura detto di aver visto La Barbera in vicolo Pipitone, la roccaforte di famiglia.

Onorato ha aggiunto: «Quando la televisione annunciò la collaborazione di Scarantino, io e altri mafiosi detenuti all’Ucciardone ci mettemmo a ridere, dicendo che il dottore La Barbera si stava comportando bene, che aveva le corna dure».

Per il tribunale di Caltanissetta del processo “depistaggio” non vi è prova che La Barbera abbia agito per favorire la mafia, «non vi è invece dubbio che abbia agito anche per finalità di carriera e, dopo essere stato posato alla fine del 1992, una volta rientrato nel circuito, abbia fatto letteralmente carte false per poter mantenere e accrescere la propria posizione all’interno della polizia e nell’establishment del tempo». I giudici hanno espresso anche un’altra certezza: «Non vi è dubbio alcuno che il dottor Arnaldo La Barbera fu interprete di un modo di svolgere le indagini di polizia giudiziaria in contrasto — non solo oggi ma anche al tempo — prima ancora che con la legge, con gli stessi dettami costituzionali». Ma, ora, dopo aver ripercorso l’intercettazione di Riina, torna la domanda: per conto di chi agì La Barbera?

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